La notizia l’ha data Alex Puissant su Facebook: Rinaldo Zoppini, calzolaio per 74 anni, chiude il suo laboratorio in Via del Mercato Vecchio. “In questi giorni, il signor Zoppini sta vendendo i suoi macchinari. A più di 96 anni, è ancora in buona salute ma vuole lasciare il lavoro a chi è più giovane di lui”. TamTam, nel 2002, quindi già vent’anni fa, gli aveva dedicato un articolo, nella rubrica “Antichi Mestieri” a cura di Sonia Montegiove: “Quando un paio di scarpe durava una vita”: lo riproponiamo quale omaggio alla lunga attività del calzolaio di Todi.
Il detto popolare che vorrebbe il calzolaio scalzo non si addice certo al tuderte Rinaldo Zoppini, abile conoscitore di un mestiere ereditato dal padre, che mostra orgoglioso le scarpe cucite con le proprie mani e racconta di quelle preparate per tutti i componenti della famiglia. In mezzo a tomaie, suole, marteina e lesina Rinaldo c’è cresciuto, visto che suo papà, dopo aver frequentato la scuola artigiana del Crispolti, iniziò il lavoro del calzolaio giovanissimo e ha continuato a farlo fino oltre gli ottant’anni.
Neanche la guerra mondiale ha fermato il martello di Zoppini che batteva sulle suole. “Durante gli anni Quaranta – rcconta Rinaldo – mancava il materiale ed eravamo costretti a conciare la pelle da soli o a lavorare con cuoio e chiodi recuperati da roba vecchia”. Nei suoi occhi compare un velo di commozione al ricordo dei tempi in cui da bambino passava giornate intere a dar colpi sui chiodi vecchi per raddrizzarli. “Ancora conservo il ferro da stiro della povera nonna – ci dice tirando fuori un pezzo arrugginito da una scatola – sul quale battevo i chiodi giornate intere, tanto che di tempo per giocare non ne rimaneva”.
Unico dei fratelli a continuare il mestiere del padre, Zoppini inizia la sua carriera nel calzaturificio Roversi, dove resta per due anni a costruire gli scarponi militari per gli alpini. “Mi ricordo – sottolinea – quanto fosse faticoso cucirli a 8-10 fili bucando quel fondo spesso con la lesina… e il tutto per una miseria!”. Sul lavoro incontra poi un ternano che lo convince ad arruolarsi nei vigili del fuoco di Livorno. “Da pompiere – dice Rinaldo – ho comunque continuato a riparare e cucire scarpe per circa tre anni, assolvendo così l’obbligo militare”. Nel 1947 torna nella sua Todi, dove inizia l’attività in una bottega vicina alla piazza del Mercataccio, luogo nel quale passa ancora una parte del suo tempo, un po’ ricordando e un po’ facendo qualche riparazione.
“Nel dopoguerra il lavoro non è mancato – racconta Zoppini – perchè le famiglie erano quasi del tutto scalze. Al tempo lavoravo con mio padre, con il quale abbiamo girato tute le campagne intorno a Todi”. Sì, perchè le famiglie contadine passavano a prendere i due calzolai con la bega, caricavano la loro macchina cucitrice (la stessa che Renato usa ancora oggi) e li ospitavano per il tempo necessario a realizzare le scarpe della famiglia. “Ci pagavano a giornata – prosegue l’artigiano – e ci fornivano vitto e alloggio ma noi lavoravamo pure di notte alla luce dell’acetilene”. All’epoca per un paio di scarpe si ricevevano 80 lire che erano il frutto di almeno due giorni di lavoro. “Attrezzi particolari non esistevano – ricorda Rinaldo – e le uniche cose a disposizione erano martello e chiodi per inchiodare, lesina e spago per cucire, raspa e vetro per rifinire”. Questo all’inizio degli anni Cinquanta, allorchè padre e figlio comprano una cucitrice che viene utilizzata ancora adesso. Mentre parla, il calzolaio si dirige verso un telo rosso che solleva per mostrare fiero la “Singer” tirata a lucido nonostante l’età. Solo dopo diversi anni si è comprato il banco di finissaggio, necessario per rifinire e lucidare il lavoro, ma conserva ancora gli attrezzi del papà che entrano tutti in una scatola di cartone. D’altra parte, finchè non è stata inventata la colla, del cui profumo è impregnata la vecchia bottega, tutto veniva cucito con lo spago. E anche se è passato mezzo secolo, lo scarpaio tuderte costruisce calzature sempre allo stesso modo, disegnando la figura del piede sulla carta, misurando la circonferenza del collo e la sua lunghezza, preparando a mano fondo e tomaia. “Ci impiego circa dodici ore – spiega – anche se devo dire che i tacchi da un po’ di tempo li compro già pronti, mentre una volta li facevo io di cuoio”.
Il lavoro di maggior soddisfazione? “Delle oltre duemila scarpe costruite in vita mia – ci risponde – sicuramente i pezzi più belli sono stati gli stivali da cavallo”. Tranne qualche rara collaborazione da parte di vecchi amici ormai scomparsi, Zoppini non ha potuto contare sull’aiuto di altri. “Non ho avuto apprendisti – conferma – anche perchè questo è un mestiere che ti fa lavorare tanto e guadagnare poco rispetto ad altri artigiani: se avessi avuto un figlio maschio non glielo avrei consigliato di certo”.
Mentre parliamo passa un signore anziano che apre la porta della bottega ed esclama: “Zoppì, quando me le fai le scarpe?”. Rinaldo sorride, pensa alle intere generazioni tuderti che hanno calzato il frutto del suo lavoro e che lo vorrebbero “agli arresti domiciliari” ancora dentro la bottega a battere e cucire, e commenta felice: “Lui è un amico, porta solo le scarpe che faccio io”.