In ogni ambiente naturale, a maggior ragione in montagna dove è possibile trovare diversi scenari, come ad esempio grotte, fiumi, laghi, boschi, dirupi, l’imprevisto è sempre possibile, e spesso si riscontra la necessità di dover attivare un’unità di soccorso specializzata il “soccorso alpino”, in cui l’infermiere riveste un ruolo centrale.
Quando si verifica una difficoltà durante una gita/escursione il primo passaggio da effettuare è la chiamata al 118 che attiva la “macchina del soccorso”; dunque l’infermiere dovrà valutare la componente ambientale (localizzazione del paziente, impervietà del luogo, minacce ambientali), la componente sanitaria (condizioni cliniche generali), infine valutare che tipo di squadra di soccorso deve essere attivata.
Le maggiori difficoltà durante il soccorso in ambiente ostile, sono legate sia ai rischi ambientali dovuti agli scenari imprevedibili e spesso di difficile accesso, sia alle condizioni cliniche del paziente, che devono essere in primo luogo accertate, monitorate e trattate. La stabilizzazione, la messa in sicurezza e il trasporto seguono questa prima fase; durante il trasporto è fondamentale una continua rivalutazione del paziente.
Tra le problematiche più importanti in ambiente montano troviamo:
Una volta individuato e raggiunto l’infortunato, occorre procedere alla sua immobilizzazione, eseguire le relative manovre sanitarie (in base alle problematiche cliniche) e comunicare con il 118; una volta stabilizzato, è necessario provvedere al trasporto.
Una delle maggiori criticità nell’intervento in ambiente ostile è il fattore tempo. Per questo motivo viene spesso attivato il servizio di elisoccorso che, oltre ad essere un mezzo di trasporto molto rapido, può arrivare quasi ovunque con una squadra sanitaria addestrata formata da medico e infermiere che, coadiuvati dai sanitari delle squadre di terra, stabilizzano il paziente e lo centralizzano nell’ospedale adeguato alle sue condizioni.1
Esaminiamo le principali problematiche riscontrabili:
Per ipotermia s’intende una diminuzione della temperatura corporea al di sotto dei 35°C. Tale condizione, reversibile e recuperabile, può precipitare fino all’assideramento, condizione che si verifica quando la temperatura corporea scende al di sotto dei 35°C, sino ad arrivare ai 24-26°C.
Quando l’organismo è esposto a basse temperature il corpo umano mette in atto meccanismi fisiologici di difesa per contrastare tale condizione, come ad esempio la vasocostrizione periferica, per cercare di aumentare l’afflusso di sangue caldo ai visceri, l’aumento della frequenza cardiaca per incrementare la circolazione sanguigna e il brivido.
Se l’ambiente circostante è freddo, il calore sviluppato viene sottratto in modo rapido dall’ambiente stesso.
Nel caso in cui queste reazioni non sortiscano alcun effetto, col passare del tempo tutte le funzioni difensive e fisiologiche cominciano ad indebolirsi progressivamente.
In base alla temperatura centrale, l’ipotermia si può distinguere in quattro stadi di gravità:
Esistono due metodi per riscaldare il paziente:
La misurazione della temperatura corporea deve essere esatta e costante, in quanto risente fortemente del metodo e della sede utilizzati per rilevarla.
La temperatura da monitorare è sempre quella centrale, ovvero la temperatura che si registra nel centro termoregolatore a livello dell’encefalo, organi mediastinici e della cavità toracica.
Le principali sonde di registrazione sono la sonda nasofaringea, la sonda esofagea e la sonda vescicale, la quale riflette in maniera abbastanza fedele la temperatura centrale con i vantaggi di sicurezza, attendibilità, economicità e velocità di rilevazione.
Per quanto riguarda i presidi non invasivi il più utilizzato è la sonda timpanica, la quale rappresenta il metodo più accurato non invasivo per il monitoraggio della temperatura. Questa sonda, che utilizza una tecnologia ad infrarossi, possiede però un range molto limitante entro il quale è operativa (34° – 42,2°C) e la sonda cutanea, il cui utilizzo non è però raccomandato.2
Possiamo identificare due scenari, il primo riguardo ai danni dovuti ad esposizione errata e prolungata ai raggi solari, il secondo riguardo all’approccio ad un evento di incendio boschivo, nel quale può essere coinvolta la vittima ma anche il professionista giunto in soccorso, sia esso vigile del fuoco o operatore volontario di antincendio boschivo.
Il colpo di sole comporta un aumento della temperatura corporea a causa dell’irradiazione solare e di una protezione inadeguata e può associarsi a ustioni sulla pelle o sul capo: questa condizione avviene soprattutto in montagna, dove le temperature sono più basse ma gli ampi spazi aperti determinano una costante esposizione al sole. Il colpo di calore, invece, può manifestarsi anche al chiuso o in assenza del sole, quando la temperatura esterna è molto alta ed è associata a un elevato tasso di umidità o alla mancanza di ventilazione, condizioni a cui l’organismo non riesce ad adattarsi.
Tra i danni da calore negli ambienti di incendio boschivo, i maggiori problemi sono ricondotti in ordine di rilevanza, all’inalazione di fumo, alla disidratazione e alle ustioni.
Il fumo generato dagli incendi ha una composizione diversa rispetto ad altri prodotti della combustione. Le specie chimiche sviluppate sono determinate da molti fattori unici come il luogo dell’incendio, il tipo di vegetazione bruciata e le condizioni meteorologiche.
Gli incendi producono proporzionalmente più particolato fine (meno di 2,5 micron) e ultrafine (sotto 1 micron) rispetto al particolato grossolano, definito come particelle di dimensioni inferiori a 10 micron (PM 10 ).
Il particolato fine e ultrafine è molto pericoloso per la salute umana a causa della sua capacità di penetrare più profondamente nel polmone.
Il particolato trovato nel fumo degli incendi è una miscela eterogenea di specie chimiche, la composizione dipende dal tipo di biomassa bruciata e dalle condizioni della combustione.
La fase senza fiamma della combustione del legno è associata a una maggiore produzione di particolato e può rappresentare una grande percentuale delle emissioni totali di inquinanti atmosferici degli incendi.
Il maggiore impatto del fumo degli incendi boschivi sul sistema sanitario deriva dai pazienti che cercano cure per i sintomi respiratori. Le visite di emergenza per sintomi respiratori aumentano nelle aree colpite dal fumo degli incendi. In particolar modo le patologie associate sono asma, bronchite, dispnea e BPCO.
Il caldo e un’eccessiva sudorazione possono determinare anche un elevato rischio di disidratazione: l’organismo perde più liquidi di quanti ne assuma e si altera l’equilibrio di sali minerali e zuccheri.
I sintomi principali sono sete, debolezza, vertigini, palpitazioni, ansia, pelle e mucose asciutte, crampi muscolari ed ipotensione. Nei casi più gravi invece la disidratazione può essere accompagnata da stato confusionale, perdita di coscienza, shock fino a morte.
In caso di disidratazione lieve può essere sufficiente bere molta acqua. Nei casi un po’ più gravi, è necessario assumere una particolare soluzione reidratante orale che contiene la giusta concentrazione di sali minerali (elettroliti) e zuccheri. Il consumo di succhi di frutta, bibite gassate e bevande sportive non è altrettanto efficace. In caso di disidratazione grave, si somministrano liquidi per via endovenosa.
I casi lievi e moderati possono risolversi in meno di un giorno, la disidratazione grave deve essere trattata in ospedale e occorrono da 2 a 3 giorni per la risoluzione con una terapia appropriata.
Tra le maggiori cause di ustione in luoghi aperti sicuramente troviamo il classico eritema solare, comune ma non da sottovalutare, in special modo se questo interessa buona parte della superficie corporea. Altro evento che può verificarsi è l’ustione da esposizione ad un incendio boschivo. In entrambi i casi la corretta procedura da seguire è la stessa: accertare il grado dell’ustione e la sua estensione.
Prima regola è quella di agire soltanto se la scena è sicura per l’operatore; di seguito valutare rapidamente le funzioni vitali, praticare RCP (se necessario), successivamente raffreddare le zone interessate con abbondante acqua o fisiologica fredda. Poiché l’acqua conduce il calore 22 volte più dell’aria, il lavaggio risulta come una vera e propria estrazione di calore, riducendo quindi profondità delle lesioni, edema e dolore. Poi rimuovere tutti i tessuti non aderenti alla cute allo scopo di eliminare un ulteriore fonte di calore residuo. In caso di vestiti aderenti alla cute è bene coprire con impacchi freddi. Subito dopo averla raffreddata, la priorità diventa quella di riscaldare la vittima, ossia limitare la dispersione termica causata dalla distruzione dei tegumenti.
Il supporto avanzato del paziente ustionato riguarda soprattutto le lesioni termiche all’apparato respiratorio, l’inalazione di gas tossici e l’ipovolemia. Solo l’ultima, è facilmente riscontrabile in ambiente per il quale l’intervento deve essere tempestivo e decisivo fin dall’ambiente pre-ospedaliero, attraverso l’applicazione di due accessi venosi di grosso calibro e all’infusione di cristalloidi nella misura di 30ml/kg per ora, fino all’ arrivo nella struttura ospedaliera.
Uno scenario frequentemente riscontrabile, è quello del soccorso al traumatizzato in montagna, che potrebbe implicare un recupero lungo e difficoltoso. Per intervenire in queste situazioni la squadra di soccorso non deve mai perdere d’occhio il fattore sicurezza: un piccolo errore o una dimenticanza, al quale in ambienti urbani è facile porre rimedio, in queste circostanze può compromettere la riuscita del recupero, o peggio, l’aggravamento delle condizioni di salute del paziente se non il suo decesso. Avere anche solo le condizioni minime e indispensabili per portare l’infortunato in area sicura, è essenziale per non mettere a repentaglio la propria vita e quella del paziente.
Le problematiche maggiori, sono quelle relative alla quantità di materiale, a sufficienza per tutta la durata del recupero nel caso in cui il soccorso non possa essere effettuato tramite elicottero HEMS, ovvero in alcuni scenari di soccorso alpino, e nella totalità dei soccorsi speleologici.
Nella catena del soccorso, la fase critica è quella della richiesta di soccorso: difatti spesso il paziente non è fisicamente in grado di lanciare la richiesta o il cellulare non funziona o l’ambiente (per es. la grotta) lo rende estremamente difficoltoso. La sola richiesta di soccorso può necessitare di molte ore.
Tra gli sport di montagna che richiedono il maggior numero di interventi troviamo il trekking, anche se all’apparenza sembra esporre a meno rischi. In realtà, essendo praticato da un gran numero da persone poco esperte, presenta più rischi di infortuni, spesso minori, ma che succedendo in luoghi sfavorevoli e possono complicare la prognosi e le procedure di soccorso.
Non di poco aiuto sono, a tal riguardo, corsi di primo soccorso a praticanti sport montani nonché la buona abitudine di portare con se medicazioni basilari quali ad esempio bende, garze, sottili steccobende con anima di alluminio modellabili, cerotti e farmaci personali.
Per il soccorso durante la stagione invernale ad un paziente travolto da valanga, le prime considerazioni da fare, oltre a quali tecniche di disseppellimento applicare, sono il tempo ipotetico di seppellimento dalla neve del travolto e l’esistenza o meno di una cavità aerea intorno al capo, in particolare davanti a naso e bocca.
I soccorritori, dunque, con tecniche che prevedono l’impiego di vista-udito, unità cinofile e sonde, scaveranno in direzione obliqua a creare una nicchia, un tunnel in direzione della testa dell’assistito al fine di creare un’area sufficientemente ampia a prestare i primi soccorsi.
A questo punto l’attenzione passa alla movimentazione molto lenta del paziente per evitare danni post-traumatici, con particolare attenzione alla colonna vertebrale.
Una volta raggiunto il corpo, i soccorritori lo isolano da ulteriore raffreddamento, e se possibile ed in possesso di materiale adatto per un efficace isolamento, rimuovono gli indumenti bagnati e avvolgono il corpo in uno scudo idrorepellente anti-vento.
Quando il seppellimento stimato è inferiore ai 45 minuti il pericolo maggiore è l’asfissia acuta, la quale indirizzerà le tecniche di intervento urgenti (ABC, posizione laterale di sicurezza).
Se l’assistito presenta un buon livello di coscienza, viene invitato a compiere semplici movimenti attivi per favorirne il riscaldamento e ad assumere bevande calde, non alcoliche.
Nel caso in cui il seppellimento stimato sia superiore ai 45 minuti, il pericolo è dato dall’assideramento, e assenza di segni vitali, le manovre rianimatorie intraprese sul posto verranno continuate ininterrottamente fino all’intervento del soccorso organizzato o all’arrivo in ospedale.4
In caso di morso di serpente sarebbe opportuno che la vittima cercasse di capire da quale specie di serpente è stato morsa. In Italia l’unica specie realmente pericolosa è la vipera, a differenza della biscia, molto più comune da incontrare e, per fortuna, innocua. La vipera ha la caratteristica testa triangolare piatta ricoperta di placchette piccole e irregolari che si distingue bene dal collo, ha le pupille a fessura verticale, la lunghezza è inferiore al metro e la coda è tozza, può avere l’apice arancione.
Il suo ambiente ideale è caratterizzato da una temperatura che va dai 15 ai 35 gradi, da luoghi aridi e sotto i sassi o tra siepi ed arbusti.
Non è aggressiva e attacca solo se non ha via di scampo, la sua difesa è quindi il morso con due denti aguzzi distanziati di circa 8-10 mm uno dall’altro.
Il veleno delle vipere italiane, di norma, non è letale anche se può causare gravi complicanze che richiedono un trattamento adeguato. Può essere invece letale per bambini piccoli e anziani con malattie croniche o debilitanti.
La pericolosità è dovuta principalmente all’azione emotossica che crea coagulopatie e a quella neurotossica, che può causare paralisi spastica, convulsioni, alterazioni della coscienza o edema cerebrale.
Il morso di vipera di solito lascia il segno dei denti veleniferi: si tratta di due forellini di piccolo diametro distanziati di circa 1 cm uno dall’altro.
In caso di morso di vipera:
In pochi minuti avviene una reazione locale sul punto del morso caratterizzata dai classici segni di flogosi (calore, dolore, rossore e gonfiore) che si estende a tutto l’arto in circa 6 ore, si gonfia lentamente fino a diventare duro, dolente, freddo e bluastro. In circa 12 ore cominciano segni di chiazze cianotiche ed ischemiche, flittene e linfangite con culmine in seconda giornata.
Le reazioni sistemiche importanti, a parte lo shock anafilattico, non avvengono prima di 2 ore, concedendo quindi il tempo alla vittima di arrivare in Pronto Soccorso.
Possono verificarsi trombosi o emorragie, ipotensione, tachicardia, febbre a 38°-39° C, vomito, nausea, angoscia, senso di mancanza d’aria o crisi simil-asmatica, oliguria, coma o convulsioni per azione sul SNC, raramente nei bambini e negli anziani arresto cardiaco.5
L’annegamento viene definito come una forma di asfissia acuta, indotta da causa meccanica esterna, dovuta a occupazione dello spazio alveolare polmonare da un liquido introdotto attraverso le vie aeree superiori.
Il paziente avrà problematiche fisiopatologiche che dipendono anche dal tipo di acqua ingerita (acqua salata, acqua dolce o acqua con cloro nelle piscine), ma la caratteristica più importante è che l’annegamento spesso comporta la permanenza in acque a bassa temperatura, favorendo in questo modo lo sviluppo di ipotermia.
L’annegamento si può suddividere in tre fasi che avvengono in successione in base al tempo di permanenza in acqua, ciascuna delle quali caratterizzata da una manifestazione clinica diversa: laringospasmo, inondazione bronco-alveolare e arresto cardiocircolatorio.
Laringospasmo: la sommersione prolungata in un soggetto cosciente determina la chiusura volontaria della glottide allo scopo di proteggere le vie aeree e impedire l’aspirazione del liquido.
Il contatto delle vie aeree con liquidi freddi, inoltre, può dare origine ad uno spasmo laringeo riflesso che può essere transitorio, con successivo inondamento delle vie aeree, o persistente, che impedisce al liquido l’ingresso nei polmoni.
La sommersione in un soggetto non cosciente può consentire, al contrario, l’immediata inondazione delle vie aeree.
Inondazione bronco-alveolare: l’ipossia e l’ipercapnia derivati dal transitorio arresto respiratorio stimolano i centri nervosi al fine di far riprendere la respirazione. In questo modo avviene un’improvvisa apertura della glottide con conseguente ingresso di notevole quantità d’acqua nei polmoni, impedimento degli scambi gassosi, alterazione del surfattante, collasso alveolare e sviluppo di atelettasie e shunts.
Arresto cardiocircolatorio: l’anossia, l’acidosi e gli squilibri elettrolitici ed emodinamici derivanti dall’asfissia determinano disturbi del ritmo fino all’arresto cardiaco.
Il trattamento extraospedaliero di un paziente vittima di annegamento si basa su cinque principi assistenziali fondamentali da mettere in atto sul luogo dell’incidente:
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