Quanto un paziente Covid entra in terapia intensiva, per i familiari inizia un periodo durissimo, durante il quale (se va bene) ricevono una telefonata d’aggiornamento al giorno dai medici. È un «viaggio» lungo, in media un paio di settimane, fatto di paura, ansia, notti insonni e attese infinite, generalmente senza alcun contatto con i propri cari ricoverati . Consapevoli della gravità della situazione i parenti cercano faticosamente di capire, nei pochi minuti della chiamata dall’ospedale, se sia ragionevole sperare o se le cose volano irrimediabilmente al peggio. A complicare le cose c’è il linguaggio «tecnico» della terapia intensiva, non sempre semplice da decifrare. Per questo abbiamo chiesto a Maurizio Cecconi, responsabile del Dipartimento Anestesia e Terapie intensive dell’Istituto Clinico Humanitas di Milano e presidente della società scientifica che riunisce gli specialisti europei (la European Society of Intensive Care Medicine) , di aiutarci a comprendere meglio alcuni dei passaggi chiave del percorso in terapia intensiva, partendo sempre da un presupposto fondamentale: ogni paziente fa storia a sé e generalizzare è estremamente difficile.
Cosa sono gli scambi respiratori? «Gli scambi respiratori sono lo scambio di gas (ossigeno e anidride carbonica) che avviene a livello polmonare — risponde Cecconi —. Il sangue arterioso ossigenato circola nel nostro corpo rilasciando ossigeno ai vari tessuti e ricevendo anidride carbonica dagli stessi. Dentro i polmoni, dopo bronchi e bronchioli, si dirama una vastissima rete di alveoli. Questi sono delle piccole sfere con una membrana finissima circondata da capillari. L’aria ispirata ricca di ossigeno cede ossigeno che passa dentro i capillari e arriva al sangue, caricando le molecole di emoglobina. In direzione opposta l’anidride carbonica passa dal sangue venoso dentro l’alveolo e viene portato via verso l’esterno sempre tramite la ventilazione. Gli scambi respiratori avvengono sempre, nella nostra vita normale e durante una polmonite. Una polmonite crea problemi con gli scambi respiratori perché la parte di polmone malato diventa molto meno efficiente a scambiare gas . Per cercare di ovviare a questo problema usiamo tecniche che individualizzano la ventilazione per ogni malato: poca pressione in più o in meno fa grande differenza e la pronazione può aiutare in casi specifici. In alcuni casi dobbiamo usare una macchina che sostituisce anche il lavoro del polmone: la cosiddetta circolazione extracorporea . Soprattutto nel caso di Covid, gli eventi tromboembolici possono creare problemi agli scambi polmonari anche a causa di embolie che bloccano alcune parti delle arterie polmonari».
Cos’è la ventilazione non invasiva? «Nell’ambito dei trattamenti contro Covid si dovrebbe parlare di CPAP (ovvero Continuous Positive Airway Pressure ) dove una pressione continua viene applicata tramite i caschi trasparenti o tramite una maschera aderente al viso. Se oltre a questa pressione continua, viene applicata una pressione per facilitare il movimento del torace si parla di NIV (Non Invasive Ventilation ). Di solito, per le caratteristiche della polmonite da Covid, si prova la CPAP e meno frequentemente la NIV. Se queste dovessero fallire si valuta l’indicazione a procedere a intubazione e ventilazione invasiva».
Quando e perché si decide d’intubare un paziente? «L’intubazione è necessaria per potere procedere a ventilazione meccanica “invasiva” ovvero con un tubo che passa attraverso le corde vocali per consentire al ventilatore di portare aria e ossigeno dentro ai polmoni. Questa procedura ci consente di fare riposare interamente il malato e di controllare completamente la ventilazione . Usiamo un’attenzione meticolosa nello scegliere le diverse pressioni per portare ossigeno e rimuovere anidride carbonica nella maniera più gentile possibile: in gergo tecnico la chiamiamo ventilazione protettiva».
E la pronazione? «I nostri polmoni sono situati nel torace dove c’è anche il cuore. Per noi intensivisti il sistema cuore-polmone rappresenta il cardine su cui lavoriamo per ossigenare il sangue e quindi il resto del corpo. Normalmente, non tutte le zone dei polmoni ricevono aria e sangue in maniera omogena ma, quando il paziente è in salute, il fatto non crea problemi. Durante una polmonite questo fenomeno diventa più importante in alcune aree più attaccate dalla malattia. La pronazione può aiutarci, in alcuni casi, a ripristinare una situazione più favorevole. Nella pratica, cerchiamo di mandare più sangue verso le aree del polmone dove arriva più ossigeno e quindi ossigenare meglio il sangue e il resto del corpo . Questa tecnica ci consente anche di essere più gentili con la nostra ventilazione (la ventilazione protettiva). Decidiamo questa tecnica guardando le variabili cliniche e la TAC del paziente».
Cosa significa se un malato viene «sedato profondamente» e a quale scopo lo si fa? «Durante i primi giorni di ventilazione meccanica i malati vengono sedati per consentire loro di adattarsi completamente e in massimo comfort alla ventilazione meccanica. In questi primi momenti dobbiamo sostituire totalmente la funzione della gabbia toracica mentre mandiamo ossigeno negli alveoli e rimuoviamo anidride carbonica . Non sarebbe possibile ricevere queste cure senza una sedazione profonda. Per farlo utilizziamo farmaci cosiddetti “a breve emivita”, con i quali possiamo evitare che il paziente abbia contrazioni muscolari: significa che una volta fermata l’infusione, l’effetto si esaurisce rapidamente nei giorni successivi consentendoci di valutare se possiamo passare a una sedazione più leggera».
E in che consiste invece la «sedazione leggera»? «Quando i malati migliorano, possiamo passare da una ventilazione completamente controllata a una cosiddetta assistita. In pratica i malati iniziano a contribuire in parte alla meccanica respiratoria e il ventilatore diventa un supporto. Negli ultimi anni abbiamo imparato che, con sedazioni mirate, possiamo somministrare dosaggi più leggeri. Monitoriamo il comfort e la coscienza del paziente con l’esame clinico e con delle scale di sedazione. Questo ci consente di essere precisi per minimizzare l’effetto dei sedativi massimizzando il comfort. In pratica in reparto possiamo avere malati intubati che ancora necessitano dell’aiuto del ventilatore ma sono svegli».
Quali sono i parametri importanti per capire l’andamento di un malato? «Nonostante la terapia intensiva sia un ambiente molto tecnologico, l’esame clinico rimane la parte più importante per valutare l’andamento di un malato. Si parte da un esame obiettivo cui si aggiunge valutazione degli esami di laboratorio e dei parametri che registriamo su monitor e ventilatore, a meno che non ci siano anche altri macchinari. In terapia intensiva si sente parlare spesso di trend: non esiste infatti un parametro unico che ci dica con certezza se le cose stanno andando bene o male . L’analisi dei trend dei dati di laboratorio, di quelli dei parametri di ventilazione, la valutazione delle immagini radiografiche (e altro ancora) vengono messe insieme e discussi giorno per giorno insieme ai vari professionisti che si interfacciano al letto del paziente (dall’infermiere al fisioterapista, dai medici specializzandi ai consulenti esterni). Da questo confronto ogni giorno si fa una valutazione dell’andamento che definisce poi gli obiettivi clinici delle successive 24 ore : l’andamento viene passato in consegna tra i vari turni e viene comunicato anche alla famiglia».
Quando e come si viene estubati? «Quando la polmonite si è risolta, di solito dopo vari giorni o settimane di terapia intensiva, gli scambi gassosi sono migliorati e l’andamento clinico ci dice che il malato è pronto a respirare da solo. Di solito prima di procedere all’estubazione si fa un cosiddetto trial di respiro spontaneo: in pratica il ventilatore viene utilizzato al “minimo” e si valuta se il malato è in grado di respirare quasi da solo, mantenendo buoni scambi gassosi senza affaticarsi. Se il trial viene superato si procede alla manovra. È un momento di grande emozione e felicità per tutto il gruppo e ovviamente anche per il malato e la sua famiglia».
Quando e perché si procede con una tracheostomia? «La tracheostomia è una procedura che crea un tramite tra la parete anteriore del collo e la trachea: viene effettuata quasi sempre in terapia intensiva con tecniche mininvasive. In rare eccezioni, viene eseguita in sala operatoria. La tracheostomia eseguita in terapia intensiva (che non deve essere confusa con quella vista in pazienti oncologici per tumori della laringe) nella maggior parte dei casi è temporanea. La tecnica consente di sostituire il tubo orotracheale con una cannula tracheostomica. La differenza principale è che la cannula passa sotto e non attraverso le corde vocali e che il cavo orale resta libero dal tubo oro-tracheale. La cannula tracheostomica è tollerata molto meglio del tubo orotracheale, questo consente di limitare al massimo i sedativi e di continuare a lavorare in maniera più attiva col malato per il suo svezzamento dal ventilatore. Il nome della procedura può intimorire, ma la scelta di procedere a tracheostomia indica che pensiamo che il malato, seppure in tempi lunghi, possa essere svezzato dal ventilatore».
Come avviene lo svezzamento dal ventilatore con la cannula tracheostomica? «Quando il malato migliora ulteriormente si può allenarlo come in palestra, cercando di iniziare a fare dei periodi, inizialmente corti, poi sempre più lunghi con il minor supporto ventilatorio possibile. Una volta che il paziente riesce a passare stabilmente 48 ore senza ventilatore si può iniziare a considerarlo svezzato dal ventilatore. La cannula tracheostomica potrebbe essere mantenuta in posizione per altri giorni o settimane per consentire di aiutare la pulizia di secrezioni polmonari quando la forza per l’eliminazione tramite tosse non è sufficiente. Quando si arriva a questo step esiste anche la possibilità di utilizzare delle valvole particolari che permettono di inspirare aria tramite la cannula tracheostomica e di espirarla tramite le corde vocali, consentendo quindi la fonazione (ovvero di parlare). Anche la ripresa della voce è un momento molto emozionante per la squadra, il paziente e la famiglia. Da questo momento il paziente può comunicare parlando. Fino a quel momento vengono utilizzati dei sistemi tramite gesti o alfabeti portabili».
Quali sono le complicanze polmonari più frequenti in terapia intensiva Covid? «La prima è la polmonite stessa, che di solito, portando alla sindrome da distress respiratorio dell’adulto (o ARDS) è la causa dell’ingresso in terapia intensiva. La possiamo immaginare come una versione più aggressiva e con maggiore infiammazione dei polmoni che comporta una grande difficoltà nell’ossigenazione e necessita spesso di ventilazione meccanica invasiva. L’ARDS quando guarisce può comunque lasciare danni permanenti come fibrosi polmonare , il cui grado è un fattore importante per il recupero a medio e lungo termine. Ci sono poi le sovrainfezioni polmonari : Covid può creare uno stato di immunodepressione in cui alcuni germi normalmente presenti nel malato diventano più aggressivi e da una colonizzazione generano un’infezione. Queste infezioni possono essere particolarmente gravi perché, anche quando la polmonite da Covid si è risolta, il polmone logorato dalla malattia può predisporre a una sovrainfezione grave. Può verificarsi anche uno pneumotorace , che significa presenza di aria nello spazio pleurico (lo spazio tra le pleure, i foglietti che rivestono il polmone e la parete interna della gabbia toracica). Di solito lo pneumotorace deriva da una pleura fragile a causa della malattia. La pressione positiva generata dal ventilatore necessario a portare ossigeno nei polmoni può contribuire a iniziare o peggiorare uno pneumotorace. Infine sappiamo che in alcuni pazienti Covid si possono formare dei coaguli di sangue (emboli), spesso nelle gambe , che viaggiano fino al cuore e si vanno poi a bloccare in un ramo dell’arteria polmonare, fermando l’afflusso di sangue e generando ulteriori problemi con l’ossigenazione del sangue: in questi casi si parla di embolia polmonare ».
Perché i pazienti prendono infezioni da batteri e quanto sono frequenti? «Covid può creare uno stato di immunodepressione in cui alcuni germi normalmente presenti nel malato diventano più aggressivi e da una colonizzazione generano un’infezione. Queste infezioni possono essere particolarmente gravi perché anche quando la polmonite da Covid si è risolta, il polmone logorato può predisporre a una sovrainfezione grave. Le sovrainfezioni batteriche sono purtroppo frequenti».
E le complicanze non respiratorie? «Sappiamo che nonostante le manifestazioni principali siano polmonari, Covid è una malattia sistemica, cioè riguardante tutto l’organismo . In terapia intensiva, prima di Covid, quando un’infezione virale o batterica generava una risposta infiammatoria con insufficienza d’organo parlavamo di sepsi . Per elencarne alcuni, con Covid abbiamo visto manifestazioni cardiache, renali (a volte con necessità di dialisi o altre tecniche di sostituzione renale), cerebrali con encefaliti o, più comunemente, delirio ».
Cosa sono gli indici di infiammazione? «I cosiddetti indici di infiammazione sono dei test che vengono usati in terapia intensiva per capire il decorso dell’infiammazione legata a un’infezione. Sono delle proteine la cui produzione aumenta durante processi infiammatori e i cui valori possono variare in risposta a un’infezione che causa infiammazione. Ce ne sono fondamentalmente due: la proteina C reattiva (PCR) e la procalcitonina (PCT) . In Humanitas, con il gruppo di Alberto Mantovani, stiamo studiando in questo senso anche una nuova proteina: la pentatraxina 3 (PTX3) ».
Cosa significa se gli indici d’infiammazione salgono? «Un peggioramento dell’infiammazione che può essere dovuto all’infezione da Covid o a una nuova infezione».
E se scendono? «Esattamente il contrario, ovvero un miglioramento. Nel caso sospettassimo un’infezione batterica (oltre o invece di Covid) questi indici sono molto utili per guidare la terapia antibiotica . In particolare, alcuni studi hanno dimostrato che durante infezioni batteriche (quindi non Covid) che stiamo trattando con antibiotico, la discesa di questi indici ci consente di sospendere gli antibiotici in sicurezza, evitando trattamenti non necessari».
Quanto si resta in media in terapia intensiva? «La mediana, una misura statistica che separa a metà i pazienti in due gruppi, ci dice che si va dagli 11 ai 14 giorni . Trattandosi di un calcolo statistico significa che metà dei pazienti starà di meno e metà di più. I malati più complessi passano settimane o a volte mesi in terapia intensiva».
Quante sono le probabilità di uscirne vivi? «Le casistiche internazionali parlano di una percentuale di sopravvivenza che va dal 40% al 75% per i malati in ventilazione meccanica invasiva . I pazienti più anziani e con maggiori comorbidità (ovvero altre patologie concomitanti) hanno di solito prognosi peggiore».
Resteranno «segni» per tutta la vita? «Sopravvivere a una malattia critica da Covid è il primo grande passo verso una nuova vita. Negli ultimi anni la ricerca su sepsi e più recentemente nello specifico su Covid, ci ha fatto vedere che molti soggetti non hanno recuperato completamente le forze anche dopo sei mesi o un anno. Il termine tecnico che utilizziamo per tutte le altre patologie in terapia intensiva, e in cui rientrano anche i malati Long Covid, è Post ICU Syndrome o sindrome da post terapia intensiva , caratterizzata da stanchezza sia fisica sia mentale , che ha bisogno di un percorso riabilitativo che inizia già in terapia intensiva e deve proseguire per mesi fino al recupero dell’indipendenza funzionale del paziente. Con la Società europea di terapia intensiva stiamo cercando di sensibilizzare i Governi europei affinché questa sindrome venga riconosciuta e vengano istituiti ambulatori di follow up e percorsi riabilitativi specifici».
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