Decreto Dignità, Gratta e Vinci: accolto dal Consiglio di Stato il ricorso di Lotterie Nazionali sulla pubblicità – AGIMEG

2022-07-08 21:44:43 By : Mr. Fisher he

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima) ha accolto il ricorso proposto da Lotterie Nazionali S.r.l. contro l’Agenzia delle dogane e dei monopoli.

“L’appellante ha chiesto al Consiglio di Stato di annullare o riformare la sentenza del TAR Lazio, Roma Sez. II n. 13094 del 16.12.2021 di rigetto del suo ricorso e dei motivi aggiunti proposti in primo grado, nella sua qualità di concessionario del cd. “Gratta e vinci”, avverso le note del 21 maggio 2020 e del 17 dicembre 2020 con le quali l’Agenzia delle dogane e dei monopoli le aveva chiesto la rendicontazione e la restituzione delle somme destinate secondo la convenzione di concessione all’assolvimento degli obblighi pubblicitari relativi al suddetto gioco, ma non impiegate a tale scopo a causa dell’introduzione del divieto di pubblicità dei giochi da parte del cd. “Decreto dignità” (art. 9 D.L. 12 luglio 2018 n. 87, conv. in l. 9 agosto 2018 n. 962).

Avverso la pronuncia impugnata l’appellante ha dedotto i seguenti motivi: 1) violazione e falsa applicazione dei criteri ermeneutici di interpretazione dell’atto concessorio, applicabili ai contratti della pubblica amministrazione, in particolare: violazione dell’interpretazione sistematica (ai sensi dell’art. 1363 c.c.) e violazione dell’interpretazione letterale (ai sensi dell’art. 1362 c.c.), conseguente erronea od omessa interpretazione dell’art. 14 commi 11 e 12, dell’art. 22, dell’art. 23 e dell’art. 25 della Concessione; 2) violazione e falsa applicazione del criterio ermeneutico dell’interpretazione teleologica o finalistica (ai sensi dell’art. 1363 c.c.), conseguente erronea interpretazione dell’art. 14 co. 12 della Concessione, in relazione all’art. 2 della medesima, violazione e falsa applicazione della nozione di «concessione di servizi», ai sensi dell’art. 3 co. 1 lett. vv) del d.lgs n. 50 del 2016, e del concetto del «rischio operativo», ai sensi dell’art. 3 co. 1 lett. zz) del d.lgs. n. 50 del 2016, violazione e falsa applicazione della nozione di «commercializzazione»; 3) in ogni caso, violazione e falsa applicazione dell’istituto del mandato (artt. 1703 e ss. c.c.), erronea interpretazione della titolarità dei mezzi economici e della nozione di «patto contrario», ai sensi dell’art. 1719 c.c.; violazione e falsa applicazione delle cause di estinzione del mandato, ai sensi dell’art. 1722 co. 1 c.c.; violazione e falsa applicazione dell’istituto del mandato in rem propriam, ai sensi dell’art. 1723 co. 2 c.c. e inconfigurabilità della giusta causa; 4) violazione e falsa applicazione dell’art. 165 co. 6 del d.lgs. n. 50 del 2016 e dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990, falsa interpretazione dell’art. 14 co. 3 della Concessione; 5) violazione dell’obbligo di interpretazione costituzionalmente orientata della norma, in via subordinata, sollevamento della questione di legittimità costituzionale sull’art. 9 del decreto legge n. 87 del 2018 (convertito con la legge n. 96 del 2018), per come interpretato da Tar Lazio, 16 dicembre 2021, n. 13094 e, per quanto occorrer possa, dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, con nota del 21 maggio 2020 e con nota del 6 luglio 2020, in relazione all’art. 2 Cost. e art. 42 co. 2 e 3 Cost. (per violazione del diritto di proprietà e della riserva di legge), all’art. 41 Cost. (per violazione della libera iniziativa economica), nonché all’art. 3 co. 1 Cost. e art. 97 co. 1 Cost. (per violazione del principio del legittimo affidamento); 6) rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), per violazione della nozione di «concessione di servizi», per come intesa dalla Direttiva europea 2014/24/UE e dalla Direttiva europea 2004/18/CE, con particolare riferimento alla nozione del “rischio”, nonché per violazione del principio eurounitario del legittimo affidamento, applicabile alle concessioni di gioco d’azzardo.

All’udienza pubblica del 17 maggio 2022 la causa è stata, infine, trattenuta in decisione”, si legge nella sentenza.

“L’appellante ha lamentato una “molteplicità di errori prospettici” che avrebbero inficiato la sentenza impugnata, sostenendo, in primo luogo, che l’attività pubblicitaria ed il relativo stanziamento di risorse rientrassero nell’obbligazione principale del concessionario, afferente alla commercializzazione del gioco, costituendo uno degli elementi annoverabili al rischio dell’attività d’impresa (proprio della concessione di servizi) e che il TAR fosse incorso in una “duplice violazione delle regole d’ermeneutica”, avendo effettuato un raffronto solamente tra i commi 11 e 12 dell’art. 14 della convenzione di concessione e non un’interpretazione sistematica di tali disposizioni all’interno dell’intera disciplina del rapporto, considerato nel suo complesso, e avendo tracciato una bipartizione in realtà inesistente tra interventi di comunicazione ed informazione istituzionale, che sarebbero stati finanziati dal concessionario con risorse proprie (art. 14 comma 11 della convenzione) e attività pubblicitaria, che sarebbe stata svolta tramite l’utilizzo di somme dell’amministrazione gestite dal concessionario secondo le regole del mandato (art. 14 comma 12 della convenzione).

Tale errore avrebbe condotto i giudici di prime cure a ritenere applicabile al caso di specie la disciplina, in realtà estranea, del mandato nell’interesse esclusivo del mandante, nel quale le somme da investire in pubblicità sarebbero appartenute all’amministrazione e sarebbero state soltanto temporaneamente “trattenute” dal concessionario come una percentuale aggiuntiva della raccolta, rispetto a quella sufficiente a remunerare le altre prestazioni contrattuali; da qui la conclusione per la quale l’aggio spettante al concessionario “sarebbe stato pari all’11,40% della raccolta, a fronte dell’11,90% pattuito in virtù della previsione di cui all’art. 14 della concessione”, con una sostanziale “riscrittura in malam partem dell’atto concessorio”, denunciata dall’appellante.

Per l’ipotesi in cui l’art. 9 del D.L. n. 87/2018 avesse autorizzato l’amministrazione a rideterminare unilateralmente l’aggio in tal senso, decurtando dal medesimo la percentuale della raccolta (pari allo 0,5% del totale) non più destinabile all’attività pubblicitaria, l’appellante ha, infine, chiesto al Consiglio di Stato di sollevare questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 42 commi 2 e 3 della Costituzione, nonché di rinviare una questione interpretativa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per accertare la compatibilità di tale disciplina con il diritto dell’Unione europea, con particolare riferimento alla nozione di “concessione di servizi”, per come interpretata alla luce della direttiva 2004/18/CE e della direttiva 2014/24/CE.

Alla luce degli atti di causa, le suddette censure alla decisione appellata si rivelano fondate e meritevoli di accoglimento nei seguenti termini”, aggiunge.

“La tesi accolta dal TAR, per cui in base alle (lievi) differenze terminologiche dei commi 11 e 12 dell’art. 14 della convenzione, “le somme da destinare obbligatoriamente allo scopo promozionale (costituirebbero)… un investimento che la stessa amministrazione effettua attraverso il concessionario del gioco in questione, consentendogli di trattenere dalla raccolta una percentuale aggiuntiva rispetto a quella sufficiente a remunerare le altre prestazioni contrattuali” contrasta, infatti, con quanto emerge dal contenuto della convenzione stessa, che inserisce comunque le iniziative “anche promozionali” tra tutti gli “impegni del concessionario”, che questi è chiamato a sostenere nello svolgimento dell’attività di raccolta e gestione dei giochi pubblici denominati lotterie nazionali ad estrazione istantanea (art. 14 della convenzione) che gli compete.

Da nessuna delle disposizioni della convenzione può soprattutto dedursi, in verità, la asserita differenziazione sostanziale delle risorse con cui sostenere, da un lato, le spese per la realizzazione degli interventi di “comunicazione ed informazione istituzionale” (che avrebbero dovuto essere affrontate con fondi propri del concessionario), e, dall’altro, le spese promozionali e propriamente pubblicitarie (per le quali avrebbero dovuto essere utilizzate somme fornite dall’Amministrazione, semplicemente “trattenute in più” dal concessionario) che il TAR ha posto a fondamento del suo ragionamento, volto a riconoscere la spettanza all’Agenzia delle dogane e dei monopoli degli importi non spesi per l’attività di pubblicità dei giochi divenuta vietata a causa del “Decreto dignità”, come restituzione della provvista di un mandato divenuto inattuabile.

Oltre alla mancanza in atti di qualsiasi elemento in grado di richiamare direttamente o indirettamente la fattispecie del mandato, per l’erroneità di tale interpretazione depone, in primo luogo, il dettato letterale della convenzione che, come evidenziato, include lo “stanziamento” degli importi per la pubblicità tra gli obblighi del concessionario (art. 14 cit.) e “a fronte degli adempimenti connessi all’affidamento delle attività e delle funzioni previste dalla concessione per ciascuno dei giochi pubblici…(attribuisce) direttamente al concessionario un aggio pari all’11,90% della raccolta”.

Il suddetto corrispettivo dovuto al concessionario risulta unitariamente e complessivamente considerato ed è accompagnato soltanto dalla specificazione del fatto di essere “comprensivo del compenso dovuto ai punti di vendita previsto dalla normativa vigente attualmente pari all’8%” (art. 23 della convenzione), senza alcuna ulteriore precisazione né alcun cenno alle spese pubblicitarie.

Un’attenta lettura congiunta dell’art.23 cit. e del comma 12 dell’art. 14 conduce, dunque, a non poter in alcun modo condividere le argomentazioni sostenute dalla difesa erariale e fatte proprie dai giudici di prime cure circa lo scorporo della percentuale dello 0,50% – da destinare alle spese pubblicitarie – dall’aggio (che si ridurrebbe dunque, senza alcuna espressa previsione della legge o della convenzione all’11,40%), essendo quest’ultimo predeterminato dalla legge e rappresentando l’individuazione degli importi per le attività di promozione attraverso il riferimento ad una percentuale della raccolta solo una tecnica di calcolo degli importi stessi, che nulla dice sulla spettanza delle risorse ove, come nel caso de quo, divenute in seguito inutilizzabili per il fine programmato per factum principis.

Al riguardo occorre, inoltre precisare l’erroneità, anche sotto un distinto profilo, della pronuncia appellata circa la riconducibilità alla sola amministrazione dell’interesse a pubblicizzare i giochi, condiviso, invece anche dal Concessionario, mosso in ogni caso dal fine di massimizzare il proprio profitto e tenuto a rispettare il minimo garantito contrattuale, pari per ciascun anno di gestione al 60% della raccolta dell’anno precedente.

In tale prospettiva trovano una ragionevole spiegazione anche gli obblighi di rendicontazione preventiva e successiva dell’attività promozionale previsti nella convenzione, che non risultano certo in grado di ricondurre direttamente all’amministrazione le risorse utilizzate per l’assolvimento degli impegni pubblicitari, ma si giustificano quale forma di controllo da parte dell’autorità pubblica al rispetto del limite posto all’utilizzo dei mezzi privati e quale strumento per assicurare che politiche volte alla massimizzazione dei profitti non vadano a detrimento della salvaguardia della salute ex art. 32 della Costituzione, rischiando di alimentare il pericoloso fenomeno della ludopatia.

Da qui la sussumibilità delle spese in questione tra le obbligazioni proprie del concessionario, da sostenersi con fondi propri, la fondatezza, come anticipato, dell’appello e la declaratoria dell’illegittimità degli atti impugnati con il ricorso di primo grado e con i motivi aggiunti, con i quali l’Amministrazione si è limitata a chiedere la rifusione di tutte le somme originariamente destinate ad attività pubblicitarie e non spese per il sopravvenuto divieto imposto dal “Decreto dignità” in base ad un preteso mandato ad investire in tale settore, che non ha trovato alcuna conferma dalla disciplina convenzionale e legislativa in materia.

In riforma della sentenza appellata tali atti devono, quindi, essere annullati, salva la necessità per le parti di risolvere il problema della spettanza degli importi “risparmiati” a causa del divieto posto dal “Decreto dignità” attraverso le regole proprie della sopravvenuta impossibilità parziale delle obbligazioni e, nell’eventualità, tramite la procedura di riequilibrio economico finanziario delle concessioni di cui al’art. 165 comma 6 del d.lgs. n. 50/2016″, conclude. cdn/AGIMEG

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