Reportage dalla Polonia e al confine con l’Ucraina - di Francesco M. Cataluccio [editoriale]

2022-05-06 17:52:43 By : Mr. Jerry Wang

La Stazione Centrale di Varsavia, dove i treni e gli autocarri scaricano in continuazione ucraine e bambini che fuggono dalla guerra, è una bolgia infernale. I treni però oggi funzionano a singhiozzo perché è saltato il sistema informatico che regola il traffico ferroviario (si parla di un attacco hacker russo). Una massa di centinaia di persone silenziosa crea un’atmosfera quasi surreale. Come uccelli in gabbia svolazzano da una parte all’altra dell’enorme salone, trascinando le poche borse e valigie che sono riuscite a portarsi dietro. Passano da un tavolo per le informazioni, alla fila per gli acquartieramenti, alle tende dei pompieri dove vengono distribuiti panini e acqua. Ci sono tantissimi volontari polacchi con pettorine giallo canarino che si danno un gran daffare. La figlia liceale di un mio amico si è posta il problema di cosa potessero mangiare gli eventuali vegani. Così, con le compagne di scuola, ha organizzato un elegante tavolo, con panini buonissimi, che pare sia molto apprezzato anche dagli ebrei ortodossi. Sotte le grandi scale che portano al parterre stanno rifugiate, nella semioscurità, le donne con le carrozzine e i neonati. Là sono state sistemate le tende con i pediatri, le infermiere e i tavoli per la distribuzione di pannolini e altri generi di prima necessità. I bambini appena più grandi sono disciplinatissimi: stanno attaccati alle mamme, non piangono e non gridano, non si rincorrono (i più attrezzati giocano con i cellulari combattendo cruente battaglie contro mostriciattoli guizzanti e imprendibili). Si vedono quasi soltanto donne e bambini: il governo ha fatto sapere che, mercoledì, i profughi in Polonia hanno raggiunto la cifra di 2 milioni). I vecchi hanno preferito in genere rimanere a casa e non affrontare un viaggio disagevole e dall’esito ignoto. Gli uomini son tutti in Ucraina a combattere. Per molte è la prima volta che vanno all’estero e non avevano mai visitato Varsavia. Escono all’aria aperta e guardano col naso all’insù il grappolo di moderni grattacieli che circondano e stemperano lo staliniano Palazzo della cultura. Qualcuna si fa un selfie con i figli. Due ragazze di L’viv (Leopoli), studentesse universitarie di lontane origini polacche, mi spiegano che nessuna di quelle persone vuole rimanere all’estero. Trattano questo viaggio come un temporaneo mettersi in salvo dalle bombe. Ma non appena la situazione si normalizzerà (loro usano diverse volte l’espressione “vinceremo”) torneranno a casa e “anche se la casa non ci sarà più”, mi dice piangendo una signora di Odesa (Odessa), “la ricostruiremo”. A un certo punto appare un enorme fagiolo di plastica gialla che fende la folla: è il cappello di reclamista di un baretto che vende ravioli (“pierogi”) a poco prezzo. Non tutte le ucraine sono senza soldi e disorientate. Anche molto lontano dalla Stazione, si trovano esuli con i loro variopinti trolley che fanno piccoli acquisti o mangiano in più comode locande.

Anche il piccolo albergo del centro dove abito è tutto occupato da ucraini. Non essendoci turisti in città, il simpatico proprietario-filosofo ha dato loro tutte le stanze gratuitamente e garantito due pasti caldi. Ma, venutolo a sapere, si è attivata spontaneamente una catena di solidarietà con persone che pagano il soggiorno agli esuli. Il figlio del pianista Władysław Władek Szpilman, sopravvissuto all’Olocausto (protagonista del film Il Pianista di Roman Polanski), che abita da anni a Kyoto e insegna storia del Giappone all’Università, ha telefonato e garantito tre mesi di soggiorno agli abitanti di due stanze; così ha fatto il proprietario della principale pasticceria di Varsavia (che ogni anno mandava in aereo i suoi buonissimi krapfen al goloso generale De Gaulle, in ricordo del suo aiuto come Addetto militare francese a Varsavia, nella guerra russo-polacca del 1920); e così anche hanno pagato alcuni mesi a degli sconosciuti ucraini, una coppia di avvocati neozelandesi venuti in visita a Varsavia, rimasti bloccati per quasi due anni fuori dal proprio paese che aveva chiuso le frontiere per il Covid: hanno scritto che, dopo quello che hanno passato, si sentono solidali con chi perde la patria e riconoscenti con chi li ospitò senza fare tante storie.

A cena mi sono trovato al tavolo con due signore di Charkiv (Kharkov: 1,5 milioni di abitanti) dai tratti marcatamente orientali: una pittrice, che ha un figlio promettente stella del balletto a New York, e la sorella regista di performance teatrali che erano malviste dai filorussi. Hanno viaggiato con l’anziano e malmesso padre, ex ingegnere meccanico ed ex pugile, per tre giorni, cambiando spesso autobus. In tre, una valigia soltanto, per non rischiare fosse loro impedito di far montare a bordo anche i due trasportini con i loro gatti: “Son come di famiglia, non potevamo lasciarli laggiù!”. Parliamo un po’ in polacco, un po’ in ucraino e un po’ in russo. Non ce l’hanno con i russi. La pittrice dice che non esistono i popoli, ma soltanto due categorie di persone: “Gli umani e i disumani”. Anche loro, appena finirà l’invasione, vogliono tornare a Charkiv anche se è quasi completamente distrutta. Di andare a New York dal figlio non se ne parla proprio: “I gatti e il papà non lo sopporterebbero”. A momenti, senza che ciò abbia una qualche relazione con quello che stanno dicendo, si mettono sommessamente a piangere. Parlano, come un fiume in piena, soprattutto di ricordi (le battaglie per l’indipendenza; certi film ucraini; una gita a Venezia di due giorni…). Per l’imbarazzo mi metto a parlare col silenzioso padre e gli chiedo come mai la sua patria abbia un nome così strano e instabile: U Krajna (Al limite, al confine). Anche lui conviene che sarebbe stato meglio, come certe nazioni africane, cambiare quel nome, perché porta disgrazie. Ma poi ha quasi un tremito, come si fosse pentito di quello che mi ha appena detto. Fissando il fondo della scodella con i resti della zuppa di piselli secchi (che qui chiamano “zuppa militare”), mi dice: “Troppi sono morti per quel nome, non si può cambiarlo”.

Nel cortile incontro una corpulenta pianista di Kyiv, in tuta da ginnastica bianca, che sta cercando un mezzo per andare a Vilnius dove il figlio studia informatica: “Ha un piccolo monolocale, per qualche tempo ci stringeremo e il Conservatorio locale mi ha garantito di potermi esercitare ogni pomeriggio”. Con lei c’è l’unica altra non ucraina, oltre a me e al padrone di questo bizzarro albergo-arca di Noè (perché anche le inservienti e i cuochi sono, da diversi anni, tutti ucraini, con laurea): una giovane e irrequieta giapponese che lavorava nella filiale della Toshiba di Kyiv e ha perso il lavoro da un giorno all’altro. Domani tornerà nella sua Hokkaidō. Il trauma della guerra l’ha convinta a cambiare vita. Riprenderà a suonare il flauto. Mentre lo dice, con una tovaglietta, piega meccanicamente un complicato origami: una specie di uccello dalle piccole ali col becco ricurvo. Poi lo appende all’albero di melo che sta già germogliando.

Chi raccoglierà le fragole e gli asparagi quest’anno?, si chiede perplesso l’ortolano col banchetto di primizie dietro Plac Konstytucji. Fino all’anno scorso, in Polonia, lo facevano gli stagionali ucraini: “Ma ora sono in guerra e quelli che son fuggiti qua non hanno più il vantaggio di poter cambiare e spendere i soldi guadagnati nelle campagne polacche a casa propria. Vivendo qui con la raccolta delle fragole e degli asparagi non si campa. Per questo non si trovano polacchi, anche molto giovani, disposti a farlo!”. Col passare dei giorni le preoccupazioni polacche vanno aumentando: “Riusciremo a gestire 2 milioni di ucraini?”; “I 90.000 bambini rifugiati a Varsavia potranno avere una scuola decente?”; “Il lavoro nero, che molti ucraini accetteranno pur di guadagnare qualcosa, non andrà a togliere diritti e occupazioni ai polacchi?”

Molti sono convinti che la Destra sfrutterà il malcontento e il disagio, che cresceranno quando la straordinaria ondata di solidarietà polacca andrà affievolendosi. Come spesso accade, il terreno del malcontento e del disagio sociale vengono concimati dal diffondersi di teorie del complotto che mettono assieme elementi reali a un frullato di congetture malevole.

Gira per la Polonia una “teoria” in particolare, che trova consensi perché fa leva su sentimenti e rivendicazioni anti ucraine che si erano sopite solo per un attimo. Tutti i popoli dell’Europa centrale hanno purtroppo dei conti in sospeso gli uni con gli altri: conti che hanno a che fare con rivendicazioni territoriali e nazionalistiche inestirpabili (che spiegano anche la guerra attualmente in corso) e odi per torti e massacri reciprocamente subiti.

Il corpulento avvocato Roman Giertych (1971), parlamentare della Destra dal 2001 al 2007, ex vicepremier e Ministro dell’Istruzione fino all’agosto 2007 e attualmente presidente del partito “Lega delle Famiglie Polacche” (LPR), si è fatto portavoce di una teoria del complotto, diffusa attraverso una martellante campagna sui social media, ripresa da alcuni giornali scandalistici e ribadita con convinzione da tutti i taxisti con i quali ho avuto a che fare in questi giorni. Secondo questa ricostruzione degli avvenimenti correnti, l’attacco della Russia all’Ucraina avrebbe avuto alle spalle un accordo, tra Putin, Orban e Kaczyński, per spartirsi quel paese. Accordo andato in crisi perché nessuno poteva prevedere la forte resistenza degli ucraini e la decisa risposta dell’Occidente. Giertych ha ricordato che, 11 anni fa, durante un incontro organizzato in Vaticano dal cardinale di Vienna, ebbe occasione di parlare a lungo col da poco eletto premier ungherese Victor Orban. Già allora Orban espresse la necessità di costruire un’alternativa all’Europa guardando alla Russia e soprattutto alla Cina, e non nascose la sua ostilità verso l’Ucraina. Orban è il politico europeo più vicino a Putin e, secondo Giertych, sapendo che da otto anni la Russia stava preparando l’invasione dell’Ucraina, avrebbe pensato di trarne vantaggio per rafforzare territorialmente l’Ungheria, andandosi a riprendere quel pezzetto di Ucraina, sotto i Carpazi, dove vive una minoranza ungherese (molti dei quali stanno fuggendo in queste settimane a Budapest). Otto anni anni fa, scherzando, Putin aveva proposto all’allora premier polacco Tusk e al ministro Sikorski la parte occidentale dell’Ucraina. Alla Russia non interesserebbe, i suoi fanatici nazionalisti non la considerano nemmeno Ucraina: prima era parte dell’Impero Austrungarico (la Galizia orientale con capitale Leopoli), e poi fino al 1939 era Polonia, e ci sono ancora molto parlanti polacco. Anche per la Polonia, secondo questa contorta ricostruzione, ci sarebbe stato un vantaggio dal conflitto: intervenire a un certo punto per “salvare dai russi” (col consenso dei russi!) la parte occidentale. In realtà, quella zona è per i russi ancora più difficile da conquistare e mantenere sotto controllo: da lì intanto arrivano tutti i rinforzi attraverso il confine polacco. Inoltre Putin e i suoi consiglieri non avrebbero mai immaginato che i russofoni a oriente si sarebbero così strenuamente opposti all’ “esercito liberatore e denazificatore” (ho avuto occasione di parlare con diversi profughi ucraini-russofoni che, pur ammettendo vari episodi di discriminazioni, hanno detto che mai vorrebbero stare sotto la Russia).

Secondo Giertych, nell’incontro del 4 dicembre 2021 a Varsavia, al quale parteciparono anche Marine Le Pen e il leader del partito spagnolo Vox, Santiago Abascal (ma non Salvini e la Meloni che pure, a luglio, avevano firmato la dichiarazione congiunta nella quale si invocava la necessità di una "profonda riforma" della UE e si paventava il pericolo della creazione di un "super-Stato europeo"), Orban e Kaczynski avrebbero discusso del futuro destino dell’Ucraina (così come il 29 gennaio, a Madrid, lo avrebbero fatto Orban e Morawiecki e poi Orban volò a Mosca per incontrare Putin).

Difficile credere che le cose siano andate veramente così e che il PIS, il partito al governo in Polonia, possa aver anche solo immaginato qualcosa del genere. Lo storico Adam Michnik sostiene che questa popolare quanto strampalata teoria faccia parte della campagna nazionalista di Giertych contro Kaczynski (tradizionalmente tutt’altro che filorusso), e che vada anzi apprezzato il viaggio, il 15 marzo, a Kiev del premier Morawiecki e Kaczynski con i premier dela Repubblica Ceca, Petr Fiala, e della Slovenia, Janez Jansa. Viaggio fatto anche per uso interno: Kaczynski, accompagnando Morawiecki, ha mostrato di essere dalla sua parte nel conflitto con il leader della destra più antieuropeista, “Polonia Solidale”, l’attuale ministro della Giustizia, Zbigniew Ziobro. Questa guerra, in realtà, sta riavvicinando un po’ la Polonia all’Europa, mentre l’ungherese Orban se ne allontana sempre più. 

Przemyśl è una delle più antiche città della Polonia, a 15 km da Medyka, al confine con l’Ucraina, da dove in 40 minuti si arriva a Leopoli. Sulla strada c’è una lunga fila di automobili in uscita e di camion in entrata. Grazie a un amico che è andato a prenderlo all’aeroporto di Varsavia, e lo accompagnerà al confine, riesco a incontrare in una piccola taverna un grosso signore americano che andrà a combattere. È un ex militare, ancora abbastanza giovane e vestito con pantaloni a coste larghe di velluto chiaro e camicia azzurra. Da alcuni anni ha lasciato l’esercito (è stato, tra l’altro, in Iraq e in Afghanistan) per dedicarsi, col fratello, a una piccola azienda familiare nella costa orientale. Dice che va a combattere perché ha la moglie ucraina (nata in Canada) e i suoi figli parlano quella lingua. È molto critico verso le “brigate internazionali”: male organizzate, con difficolta di comunicazione linguistiche, praticamente senza armi (“gli ucraini ne hanno già poche per loro e là sparano tutti”). Secondo lui, i volontari stranieri sono stati ammazzati già quasi tutti. Una quarantina di canadesi, alcuni di origine ucraina, solo un paio di giorni fa. L’americano è informatissimo. Come se fosse appena tornato da là. Mi spiega che l’esercito regolare ucraino è solo una parte dei combattenti. Ci sono anche tanti gruppi che fanno la guerra quasi per conto proprio, con un ventaglio di posizioni molto vario. Il problema principale delle autorità ucraine è organizzare e tenere tutti assieme, disciplinatamente, tutti quelli che vogliono combattere. Gli ucraini, dice, sono tradizionalmente degli ottimi soldati. Erano la spina dorsale dell’Armata Rossa (l’Urss li mandò a farsi massacrare in Afghanistan). Sorridendo commenta: “Il problema dell’esercito russo adesso è di dover combattere senza ucraini contro gli ucraini!”. Secondo lui Putin si è cacciato da solo in una trappola. Una guerra che non può vincere né perdere. Se anche riuscisse a conquistare Kyiv e insediare là un governo fantoccio, avrebbe poi bisogno di almeno 150.000 uomini di stanza sul territorio per provare a mantenerne il controllo. Un costo enorme dal punto di vista economico e in vite umane (i russi continuerebbero ad essere attaccati dagli irriducibili partigiani ucraini). Non crede però che la guerra sia scoppiata perché la Russia si sentiva accerchiata dalla NATO: “È una balla colossale alla quale non credono nemmeno loro. È una guerra di riconquista”. Una guerra, a suo parere, difficile anche da fare: “Non possono radere al suolo tutte le città come fecero a Grozny, in Cecenia, e come hanno fatto ora con il porto strategico di Mariupol'!”. Le grandi potenze non possono mettere in campo tutto il loro potenziale, anche soltanto strategico: “Quando ci ficcammo in quella brutta storia (la chiama così: “dirty history”) del Vietnam, non potevamo bombardare sopra il 38° parallelo: era come avere un braccio legato dietro la schiena. E oggi, con tutti i cellulari accesi, i massacri dei civili li vedono in diretta in tutto il mondo, compreso casa tua”.

L’americano sa dove e con chi andare in Ucraina. Si è organizzato per tempo. È convinto che la guerra sarà molto lunga, a un certo punto diventerà a “bassa intensità” (il che non significa meno cruenta) come è stato per anni nel Donbass. Una guerra di posizione, casa per casa. Lui ha i contatti giusti, conosce quelli coi quali si affilierà, e conta di rimanere in Ucraina alcuni mesi. Sfacciatamente gli chiedo se, oltre al fatto di avere una moglie ucraina, lo faccia per soldi. Non riesco a immaginare che, per degli ideali che non sono comunque i suoi, abbia attraversato l’Atlantico per venire a rischiare di farsi ammazzare qui in Europa. Non lo interessa la politica. Odia così tanto i russi? Scuote la testa. Dice di voler soltanto difendere il popolo ucraino. Ma da alcune cose che bofonchia successivamente capisco che gli mancava la guerra. Per tanti anni è stato un soldato, ha combattuto in varie parti del mondo, poi ha smesso e se n’è tornato a casa a lavorare e stare con la famiglia. Però quella febbre guerriera (che io per fortuna non ho mai avuto e anche per limiti di età non avrò mai) a un certo punto deve essersi impadronita nuovamente di lui. L’Ucraina è un’occasione “nobile” per imbracciare nuovamente un’arma e sparare. Forse è un inadatto alla vita quotidiana. All’apparenza non è uno squilibrato, di quelli che sparacchiano all’improvviso in un supermercato. È un tipo lucido, freddo, intelligente, ben informato. Ci salutiamo: mi stringe la mano con poca convinzione, non devo essergli stato simpatico.

Chissà come sono quelli che combattono di là dal confine? In questo momento in Ucraina combattono tutti. Un giornalista polacco appena tornato da Leopoli mi racconta che anche i passanti, in abiti civili, ti chiedono chi sei, che fai, perché sei lì? Uomini e donne (che non hanno bambini piccoli) fanno parte della difesa territoriale. Hanno poche armi, pochi giubbotti antiproiettile e caschi. Le armi moderne stanno al fronte. In città ci si arrangia a costruire barricate, scavare trincee e passaggi, confezionare centinaia di bottiglie molotov.

I soldati russi fatti prigionieri, che si vedono in televisione, sono tutti molto giovani. Una cecchina ucraina ha raccontato: “Ci sono due tipi di soldati tra loro. Quelli in prima linea, che sono anche di leva, e quelli delle retrovie, i ceceni del presidente Kadyrov. Quelli non vengono avanti, ma sono sempre ben vestiti, con le barbe pettinate. Loro formano i zagrad otriad (plotoni di tamponamento). Sparano se qualcuno retrocede. E uccidono anche i feriti. Il colpo di grazia, dicono, ma non sono sicura che qualcuno non avrebbe potuto salvarsi. In sostanza i ceceni fanno da argine alle spalle dei soldati russi, con l’autorizzazione a sparare”.

Un esercito mandato allo sbaraglio: con un equipaggiamento inadeguato al clima rigido, con le scorte di cibo e carburante che sono in esaurimento in diverse aree e i rifornimenti sempre più difficili. Il disgelo inoltre rende ora difficili gli spostamenti nel pantano. Così l’esercito russo sembra essersi fermato e aver adottato una tattica che contempla la distruzione di villaggi, periferie ed edifici che non sono obbiettivi militari. Nella frustrazione e nella confusione i soldati compiono massacri della popolazione civile e violentano donne. Il Segretario di stato americano Antony Blinken ha dichiarato il 23 marzo: “Oggi posso annunciare che, sulla base delle informazioni attualmente disponibili, ricevute da fonti pubbliche e di intelligence, il governo americano ritiene che i membri delle forze russe abbiano commesso crimini di guerra in Ucraina”. I profughi che passano il confine con la Polonia adesso, sono terrorizzati, quasi più che dalle bombe, dalle deportazioni. Negli ultimi quattro giorni, da Mariupol', sono stati trasferiti verso destinazione ignota 60.000 persone. Ma quelli che gestiscono le deportazioni non sono più soldati russi di leva.

In poco più di un mese sono morti oltre 10.000 soldati russi e persino 7 generali. Uno, pare, ucciso dai suoi stessi soldati. Gli altri, propria a causa della riluttanza dei giovani militari, a combattere, si trovano costretti a comandare i carrarmati in prima fila. Secondo fonti militari polacche, se la situazione di stallo, con grosse perdite di uomini e mezzi, dovesse durare ancora qualche settimana, la possibilità di un colpo di stato militare in Russia diventerebbe altamente probabile (e questo spiegherebbe la “gaffe” di Biden nel suo discorso a Varsavia il 26 marzo). I militari russi sarebbero infuriati. Putin ha gestito tutta l’operazione anti ucraina con l’apparato dei servizi segreti, contro il parere di una parte importante dei vertici militari. Il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, è ricomparso in pubblico per annunciare che sono stati “raggiunti gli obiettivi principali della prima fase” della guerra e ora “l’obiettivo primario è liberare il Donbass”. Il 27 marzo è stato annunciato dai militari che “dopo il successo della fase uno, e la distruzione di parte dell’esercito ucraino e delle sue istallazioni militari, si passa alla fase due che contempla un parziale ritiro per concentrarsi nel Donbass e nella parte del territorio che costeggia il Mar Nero”. Si avanza l’ipotesi che l’Ucraina possa essere così divisa in due con un confine lungo il largo fiume Dnepr.  Questa è una guerra che non si può vincere e che non si deve perdere.

Analisi di Francesco M. Cataluccio, saggista e scrittore

Stalingrado si apre con la famiglia degli Shaposhnikov e i loro amici riuniti a una festa. Mille e passa pagine dopo, verso la fine di Vita e destino, dopo che l’assedio è rotto, i personaggi sopravvissuti ripensano a quel momento con profonda tristezza. Il romanzo mescola la grande storia con i destini di tanti individui comuni. È un racconto biografico e polifonico di una guerra tremenda ed eroica, un’alternanza continua di dolori, orrore e gioie, illusioni e disincanto.

Siamo stati in ritardo nell’ascoltare le prese di posizione di Memorial, di Novaja Gazeta, della grande Politkovskaja che ci mettevano in guardia contro la degenerazione del sistema di Putin, che vorrebbe riportare indietro le lancette della Storia ritornando ai confini dell’impero sovietico e ricostruendo ancora una volta un sistema totalitario. Siamo stati in ritardo nel comprendere come la battaglia per la democrazia, dopo le grandi speranze dell’89, abbia fatto un pericoloso passo indietro.

Il pluralismo e la democrazia sono sempre, con la mobilitazione delle coscienze, un antidoto che, prima o poi, permette di arrestare la strada verso l’abisso. Ma all’interno di un regime autoritario o totalitario, che controlla le informazioni e sostituisce la realtà con la menzogna dell’ideologia, gli anticorpi che permettano di arrestare crimini di massa sono molto più difficili da trovare.

L’eliminazione fisica di un gruppo etnico non è sufficiente per la sua completa distruzione, in quanto la vita si riproduce continuamente, mentre la soppressione della cultura pone le basi per la sua distruzione totale e per poter instaurare una cultura diversa che dovrebbe durare indefinitamente. Questo aspetto è messo in luce nella Risoluzione del Parlamento europeo che fa riferimento alle decisioni prese il 7 dicembre 2021 dalla Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite.