Respirerò - Yanez Yanez

2022-05-27 20:09:45 By : Mr. Abner Zheng

Il paziente è sedato. La sonda viene infilata nel naso o nella bocca fino ad arrivare alla trachea. In altri casi, si pratica un piccolo foro nella parte frontale del collo, così da inserirla direttamente nel tubo che collega la laringe ai bronchi: è la tracheostomia, che in tanti film abbiamo visto praticare con una penna d’emergenza. Una volta invaso il condotto da cui entra l’aria, il ventilatore polmonare fa il lavoro che l’organismo non riesce più a fare da solo. Il torace si alza e si abbassa al ritmo della macchina, un movimento che sa di calma e sollievo indotto, ma che non può spazzar via la paura di chi è andato in insufficienza respiratoria, quando gli è mancato il fiato e si è reso conto di non riuscire a riprenderlo, la sensazione di non riuscire a respirare a fondo (il termine medico è dispnea, conosciuta anche come fame d’aria), quando ha sentito il ritmo aumentare incontrollato, passando dalle 15-16 respirazioni standard al doppio, e si è accorto di scivolare in uno stato di letargo e confusione, mentre la quantità di CO2 cresceva nel suo sangue. La ventilazione polmonare è uno dei temi che la pandemia ha portato al centro delle discussioni quotidiane, soprattutto nella fase in cui molte persone sono state attaccate in modo feroce dal virus e ancora non c’era la difesa fornita dal vaccino. Prima, il problema dei macchinari e della carenza negli ospedali riguardava una parte della popolazione che soffriva già in maniera cronica di insufficienza respiratoria legata ad altre malattie o a chi ne aveva bisogno in seguito a incidenti o crisi improvvise. Il COVID-19 ha riassegnato le priorità. Tra quelle in cima, adesso, c’è il nostro respiro: una funzione automatica dell’organismo che si dà per scontata, ma che delinea diversi confini, primo fra tutti, quello tra la vita e la morte.

Tutti gli esseri viventi hanno bisogno di respirare per sopravvivere. Durante la fotosintesi, in presenza di luce solare, le piante convertono l’anidiride carbonica atmosferica e l’acqua metabolica in glucosio, di cui i vegetali si nutrono. Durante la reazione chimica, si producono anche molecole di ossigeno, elemento essenziale per la vita sulla Terra, che vengono liberate nell’aria tramite gli stomi contenuti nelle foglie. Di notte, in assenza di luce solare, si verifica il processo inverso e tocca alla pianta respirare: l’ossigeno assimilato dall’aria scompone le molecole di glucosio in anidride carbonica e acqua e le riemette all’esterno. Anche i funghi e i batteri aerobi (che vivono in presenza di ossigeno) traggono energia dalla fotosintesi, a differenza degli anaerobi, in cui hanno luogo altri processi metabolici, ad esempio la fermentazione e la respirazione anaerobica. Per i vertebrati terrestri (mammiferi, uccelli e rettili) lo scambio di gas ha luogo attraverso i polmoni. I vertebrati acquatici, invece, sopravvivono grazie alle branchie, in cui passa l’ossigeno preso dall’acqua circostante. I cetacei hanno tra le opzioni anche la respirazione cutanea, così come gli insetti, i pipistrelli, i lombrichi, le meduse, gli anfibi e altri. Alcune specie di rane utilizzano solo la pelle per assorbire ossigeno, ma il resto della categoria respira con le branchie, da girino, e con i polmoni, da adulto. Come sappiamo, tale processo nell’essere umano coinvolge diversi organi: il naso, la faringe, la laringe, la trachea, i bronchi, i bronchioli, i polmoni e la pleura. Il suo scopo è l’ematosi, ovvero il rifornimento di ossigeno agli organi e ai tessuti mediante la circolazione sanguigna. Ma davvero il respiro è solo un mezzo per sopravvivere, un meccanismo involontario azionato da un istinto primordiale? Quanto sarebbe diversa la nostra paura di rimanere senz’aria se fosse così?

La filosofia, fin dai presocratici, si pone domande e dà diverse risposte al riguardo. Ci dice che no, non è solo questione di scampare o meno al decesso del corpo. I filosofi che precedono Socrate, il primo a interessarsi all’essere umano, investigavano la natura e il cosmo e si interrogavano sul suo principio creativo, l’arché. Per Talete di Mileto, fondatore della scuola ionica, era l’acqua. Di acqua la terra era circondata e da acqua sorretta (siamo tra il VII e il VI secolo a.C.: si credeva ancora che la terra fosse piatta). Il suo discepolo, Anassimandro, ipotizzò che il principio di tutto si trovasse nell’aiperon, l’infinito, una materia illimitata, in costante movimento, i cui elementi erano ancora indeterminati. In seguito, Anassimene affermò che era l’aria, che pervade e sorregge la terra, e parlò di pneuma, il soffio, da cui supponeva dipendessero le condizioni atmosferiche: “Come l’anima nostra, che è aria, ci sostiene, così il soffio e l’aria circondano il mondo intero”. Il respiro dell’universo è come quello di un organismo, è vita e anima (psyche). Più tardi, i filosofi daranno al termine pneuma il significato di “soffio vitale”. I concetti di pneuma e psyche furono per lo più sovrapposti fin quando non si ebbe una separazione più netta a partire dal 400 a.C con Socrate e, soprattutto, con Platone. L’anima si pone a metà tra l’uomo e il divino e al suo interno contiene il daimon, letteralmente “distributore di destini”, un demone inteso come spirito guida. “Prima della nascita – spiega Platone nel Mito di Er – l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o un disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro”. Lo pneuma, invece, diventa pneumata, entità separata dalla dimensione umana. Il respiro diventa spirito. 

Platone, inoltre, individua l’origine etimologica di psyche in due possibili radici: ana-pnein (respirare) o ana-psycho (refrigero e faccio asciugare). La particella ana significa “su”, quindi, in entrambi i casi, si tratta di un movimento verso l’alto, proprio come il fiato che espiriamo e sale. Secondo Aristotele, il termine proviene da kata-psyxis (raffreddamento): pertanto, come il suo maestro, lo associa al freddo. Non la pensano allo stesso modo gli stoici, per i quali lo pneuma è un soffio di origine divina, una materia attiva composta da fuoco, che dà vita alla forma (in sé passiva) e veicola il logos, pensiero e parola. In quanto generata dallo pneuma, anche l’anima è composta da fuoco. E dello stesso elemento è fatto, per i cristiani, lo Spirito Santo. Ma a differenza dello pneuma nella visione stoica, che ha la funzione di sostenere, lo Spirito Santo redime: “Il fuoco dello Spirito Santo – afferma Papa Francesco – è una forza creatrice che purifica e rinnova, brucia ogni umana miseria, ogni egoismo, ogni peccato, ci trasforma dal di dentro, ci rigenera e ci rende capaci di amare”. Nell’Antico Testamento ritroviamo l’energia vitale del soffio. In ebraico, ruah significa vento, respiro, spirito di Dio: “Allora il signore Iddio formò l’uomo dalla polvere della terra e alitò nelle sue narici un soffio vitale, e l’uomo divenne un essere vivente” (Genesi 2,7). I riferimenti non mancano nemmeno nella tradizione gnostica. La scuola valentiniana distingue tre categorie di uomini: gli pneumatici, o spirituali, che possiedono lo spirito divino e sono predestinati alla salvezza; gli psichici, dotati di anima razionale e capaci di scegliere tra bene e male; gli ilici (da hyle, terra) o coici (da chous, materia), uomini materiali per i quali non ci sarà salvezza, ma dannazione, dal momento che non c’è resurrezione del corpo.

Il respiro è sopravvivenza, ma anche vita, spirito. È azione, entusiasmo, pesantezza, paura, affanno. È silenzio, pausa, sollievo, calma, ritmo. Quasi tutti gli stati d’animo che ci suggerisce la parola italiana e i suoi composti si trovano nei modi e nei contesti in cui la usiamo e derivano dalla sua origine nel verbo latino spirare, “soffiare”. L’aggiunta del prefisso re, di cui in latino non c’è traccia, ci dona la completezza della ripetizione del gesto, senza la quale non ci sarebbe sopravvivenza, soltanto un’unica emissione di fiato. Il termine originario è molto probabilmente onomatopeico e suggerisce il sibilo dell’espirazione, il fruscío dell’aria che entra nel sistema respiratorio e poi esce. Come il tocco delle dita che scivolano su una striscia di tessuto, ma con l’energia che esplode quando si pronucia la p della prima sillaba. Dal lemma nascono cospirare, respirare insieme, e sospirare, un verbo di sollievo, speranza, rassegnazione, dolore. Inspirare ed espirare, ma anche ispirare: un impulso che arriva dall’esterno, da una musa, una divinità, un daimon. O da uno spirito, che ha la stessa radice. Il termine spirare in italiano indica unicamente l’ultimo respiro, quello che abbassa la palpebre per sempre ed esala tutta la vita rimasta. Dal punto di vista semantico, possiamo usare il termire respiro anche quando parliamo di un’opera, un progetto, un’azione. Diciamo che è “di ampio respiro”, come se riempisse d’aria i polmoni ed espandesse il petto e con questo riuscisse ad allargarsi nello spazio. Il respiro si trattiene, si mozza, si rincorre, si allena, si controlla.

La nostra capacità di respirare cambia in base al nostro stato emotivo. Pertanto, si può dire che ci racconti anche come stiamo. Allo stesso modo, cambiando modo di respirare, possiamo cambiare la nostra condizione interiore. Quando siamo sotto stress, non varia solo la nostra lena, ma anche la pressione sanguigna, la tensione muscolare: il nostro cuore batte più rapidamente, così come il respiro, che diviene più superficiale. Si tratta della reazione attacca o scappa (fight or flight), una difesa istintiva del nostro organismo che ha radici primordiali e che ci accomuna agli animali. Il cervello avverte una situazione di pericolo e prepara l’organismo. La paura percepita dall’amigdala innesca una catena di operazioni che coinvolgono il sistema simpatico, quello “acceso” quando dobbiamo essere al 100%, vigili e predisposti all’agire. Viene quindi rilasciata la noradrenalina e prodotto cortisolo. Questo significa che il corpo varia le modalità di espletamento delle funzioni non utili all’attacco o alla fuga, ad esempio la digestione, che non viene bloccata, ma rallentata. La respirazione avviene solo nella parte alta dei polmoni e si fa frettolosa, agitata, così come accelerano i battiti, mentre il cuore pompa per dare sangue ai muscoli, in tensione e pronti a scattare. Questa reazione è naturale e sana in momenti di stress. Il problema si pone nel momento in cui siamo stressati tutto il giorno: il sistema simpatico è sempre attivo e non avviene la fase successiva, cioè quella in cui il sistema parasimpatico traghetta l’organismo verso uno stato di calma e le sue funzioni tornano al ritmo ordinario. 

Discipline come lo yoga e il pilates, la ginnastica che giova al cuore e alla respirazione, o la pratica mindfulness, il fad respiro, aiutano a riportare l’attenzione sul respiro, sia quando eseguiamo movimenti (coordinati all’inspirazione e all’espirazione) sia quando siamo in posizione statica, in meditazione. In sanscrito, il respiro è prana, forza vitale. Con il pranayama (la pratica del prana) lo yoga insegna diversi modi per essere consapevoli del proprio respiro e regolarlo. Per esempio, la respirazione diaframmatica in posizione supina (savasana) o la respirazione alternata occludendo una narice e poi l’altra, così da attivare il sistema simpatico (narice destra) e quello parasimpatico (narice sinistra) e cercare un equilibrio. 

Anche nella cultura sanscrita si giunge all’anima tramite il processo di respirazione, perché il ritmo del respiro è quello dell’anima stessa. Nella dottrina induista, dal naso di Vishnu esce il soffio vitale il cui controllo è la strada per l’illuminazione. Molto importante è il concetto di atman, lemma sanscrito che indica l’essenza di sé, la coscienza individuale, ma anche, di nuovo, l’afflato che dà la vita. Lo stesso concetto è alla base della pratica buddhista, insieme alla coscienza del respiro, tema centrale del discorso di Buddha Anapanasati Sutta (letteralmente “discorso sulla consapevolezza del respiro”) in cui dà ai monaci i precetti per una meditazione che coinvolga mente e corpo e porti alla comprensione: “In che modo, coltivata e regolarmente praticata, la presenza mentale del respiro è di gran frutto e beneficio? Quanto a questo, monaci, un monaco, recatosi nella foresta, ai piedi di un albero o in un luogo deserto, siede con le gambe incrociate, mantiene il corpo eretto e l’attenzione vigile. Consapevole inspira, consapevole espira”. 

Le tecniche mindfulness, una meditazione del respiro, si ripropongono di seguire gli insegnamenti di coscienza di sè e del respiro tramandate dai buddhisti e applicarli alla vita odierna. Lo scopo è quello di far raggiungere uno stato di benessere, prestando attenzione alla realtà “qui e ora”, in maniera oggettiva e distaccata, non giudicante. Negli ultimi anni si sono moltiplicati i corsi, i video su YouTube e le App, tra cui la famosa Headspace, per chi cerca di non soccombere allo stress, anche facendo solo tre minuti di meditazione tra un meeting e l’altro, tra una telefonata di lavoro e un imprevisto a casa. Soprattutto, la pratica mindfulness è uno strumento per calmare la mente in cui si sono aggrovigliati troppi pensieri. Non punta a eliminarli, ma a lasciarli entrare nella nostra testa e a farli uscire con consapevolezza, perché affrontare la vita con uno stato d’animo quieto cambia la prospettiva. Molte grandi aziende hanno attivato dei programmi di mindfulness per i propri lavoratori, a qualsiasi livello. Primo fra tutti Google, che ha iniziato nel 2007 mettendo a disposizione dei dipendenti il programma “Search inside yourself”. Per l’azienda statunitense, questa pratica sviluppa l’intelligenza emotiva e permette di comprendere meglio le motivazioni dei colleghi.

Le tecniche meditative e il controllo della respirazione nella vita di tutti i giorni (non solo al lavoro) sono ancora più preziose nel momento storico in cui viviamo. Secondo il rapporto pubblicato il 10 marzo di quest’anno dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel primo anno di pandemia la prevalenza globale di ansia e depressione è aumentata del 25%. Nello specifico, sono aumentati anche i casi di attacchi di panico. Sul suo sito web, l’Associazione italiana di analisi e modificazione del comportamento e di terapia comportamentale e cognitiva (AIAMC), dà alcuni consigli per fermare una crisi di panico agendo sui diversi sintomi, tra cui la mancanza di respiro. Si consiglia di attivare una respirazione diaframmatica, profonda, contando fino a tre nella fase di inspirazione, trattenendo il respiro fino a tre e contando fino a quattro mentre si espira. Riconoscere che è un sintomo temporaneo e concentrarsi sul conteggio impedisce di andare in iperventilazione e può aiutare a placare anche gli altri sintomi.

La respirazione ha bisogno di metodo anche nello sport. Nelle discipline acquatiche questo si traduce spesso in tecniche per trattenere il fiato, per rimanere in apnea. Non vale solo per gli apneisti, ma anche per i sub o i surfisti, che devono essere pronti ad affrontare l’eventualità della mancanza di ossigeno sott’acqua. E poi il respiro si allena nell’arte. Basti pensare ai musicisti di strumenti a fiato. Il trombettista e docente Andrea Conti sconsiglia qualsiasi tipo di tecnica respiratoria durante l’esecuzione musicale, dal momento che la stessa potrebbe essere compromessa da tensioni muscolari, ma sul suo sito web indica diversi esercizi utili con cui prepararsi. “Le uniche differenze – scrive – fra il respiro di una persona che non suona uno strumento musicale e uno strumentista a fiato dovrebbero essere la quantità d’aria e la velocità del respiro. Detto questo, respirare deve rimanere più semplice, naturale e facile possibile”. A chi vuol fare teatro si insegna la respirazione diaframmatica, per andare in scena con un corpo rilassato ed evitare un debito d’ossigeno, oltre a un colorito troppo rosso, dopo una battuta lunga. Questo tipo di respirazione nel canto è essenziale.

Il respiro è un simbolo. Ed è anche il nome di una provocatoria opera di Samuel Beckett: uno spettacolo di soli 35 secondi, senza attori e senza un copione (solo qualche indicazione). Il palco è cosparso di rifiuti di ogni genere, illuminati da una luce fioca per 5 secondi. Poi, si sente un vagito. Allora comincia l’inspirazione, lenta e in un crescendo di 10 secondi, mentre la luce si fa più forte e poi si ferma, insieme al fiato, per altri 5 secondi. Ora si espira, con la stessa lentezza, per 10 secondi. La luce si affievolisce. Di nuovo, il vagito. E per gli ultimi 5 secondi si torna alla scena iniziale. Si chiude il sipario. Con Respiro, Beckett porta all’estremo il teatro dell’assurdo e sfida la borghesia, messa di fronte alla vuotezza dei suoi stessi contenuti, alla sporcizia della sua condizione. Il soffio diventa accusa contro la società. Anche Diogene di Sinope, detto il cinico, era un personaggio controcorrente. Tuttavia, il filosofo greco, vissuto tra il 400 e il 300 a.C., non usò l’arte per dire la sua, bensì la morte. Secondo la storiografia, infatti, decise di suicidarsi impedendosi di inspirare: “Se ne andò al cielo premendo il labbro contro i denti e mordendo il respiro”. Così volle anticipare la fine dei suoi giorni, anziché aspettare che essa fosse determinata da altro al di fuori della sua decisione. Spirare divenne libertà.

A partire dal 25 maggio 2020, il respiro è anche quello che è mancato a George Floyd, mentre l’agente di polizia Derek Chauvin spingeva il ginocchio sul suo collo, per nove minuti. I can’t breathe, non posso respirare, è la richiesta d’aiuto soffiata con un filo di voce, prima di morire sotto il peso del poliziotto. Ed è diventato un grido che ha coinvolto tutto il mondo, uno slogan contro la discriminazione razziale, l’abuso di potere, la violenza. Un simbolo di quel grido soffocato, ignorato troppe volte e a cui invece doveva essere data importanza. Perché il respiro va ascoltato. E non soltanto il proprio, per la salute e il benessere interiore: chiede di essere ascoltato anche quello degli altri, in tempo di guerra come in tempo di pace, durante e dopo una pandemia, con la stessa attenzione con cui i bambini portano all’orecchio una conchiglia per sentire il respiro del mare.