Più che le sanzioni, poterono (e possono) le auto-sanzioni. I motivi del blocco del sesto pacchetto, che include l’embargo sulle esportazioni di petrolio russo, sono molti. Ma abbiamo scelto di cominciare da una notizia interessante e “positiva”: fino a questo momento, gli effetti delle auto-sanzioni europee stanno facendo notevolmente più male a Mosca che ai paesi europei.
Parliamo di “auto-sanzioni” perché, pur in assenza di sanzioni formali, nel periodo successivo all’invasione russa dell’Ucraina molte compagnie di trading e importatori europei hanno cominciato a ridurre i loro acquisti di petrolio russo. Con la diminuzione della domanda europea (circa il 45% delle esportazioni russe), e non trovando sufficienti importatori non europei per compensare le perdite, la Russia è stata costretta a ridurre la produzione interna (IEA stima una riduzione di 900.000 barili al giorno ad aprile, in crescita fino a 1,5 milioni a maggio). Non solo: in assenza di acquirenti e sotto la minaccia continua di nuove sanzioni, il prezzo del petrolio russo (Urals) è diminuito, tanto che oggi il suo prezzo è scontato di circa 35 dollari al barile rispetto al Brent. Questi meccanismi hanno provocato una riduzione delle entrate per Mosca che, se protratte nel tempo, equivarranno a circa 570 dollari l’anno per ciascun cittadino russo. Viceversa, il maggior prezzo del petrolio Brent per i cittadini europei si traduce al momento in un costo di circa 150 dollari l’anno pro capite. In sostanza, i russi stanno ricevendo un colpo quattro volte superiore rispetto agli europei.
Il grafico però mostra anche il primo problema delle sanzioni sul petrolio in discussione. Ci si potrebbe infatti chiedere: se la riduzione delle importazioni di petrolio ha effettivamente danneggiato l’economia russa, perché non colpire ulteriormente Mosca proprio dove fa più male? Uno dei problemi sta proprio nel capire se e quanto possiamo danneggiare ulteriormente il Cremlino, senza farci più male “noi”. Non è infatti scontato che, imponendo un embargo, l’UE riuscirebbe a minimizzare ulteriormente i ricavi russi, anzi.
Nel peggiore dei casi un aumento repentino della domanda di petrolio non russo potrebbe far schizzare il prezzo del Brent sui mercati internazionali. Se questo raggiungesse i 170 dollari/barile, i più affamati acquirenti asiatici (Cina e India in primis) vedrebbero con più gola anche lo scontato Urals, e la maggior domanda di petrolio russo contribuirebbe a far alzare anche quel prezzo, fino a ridurne lo sconto. In questo scenario pessimistico, non solo il danno collaterale per gli europei sarebbe elevato (oltre 600 dollari pro capite annui), ma Mosca anziché perderci ci guadagnerebbe senza nemmeno dover aumentare la produzione.
Un secondo problema che rende complicato raggiungere un accordo sulle sanzioni sull’energia riguarda il costo di gas ed elettricità in Europa. Malgrado il gas sia escluso dalle sanzioni attuali, alcuni governi temono che dopo il petrolio non potrebbe che arrivare una discussione su come accelerare un’emancipazione europea dal gas russo (e mercoledì la Commissione europea ha già avanzato le sue proposte al riguardo). Inoltre, le opinioni pubbliche europee faticano a distinguere tra gas e petrolio quando esprimono preferenze sulle sanzioni internazionali.
Da ben prima della guerra, una combinazione di congiuntura economica e riduzione delle vendite di gas russo ha contribuito a far lievitare i prezzi a pronti del gas spot in Europa, che oggi sono circa cinque-sei volte più alti rispetto a periodi “normali”. Da anni, poi, anche i prezzi previsti da contratti di lungo periodo (compresi quelli russi) sono legati a quelli degli hub europei del gas e dunque risentono delle fluttuazioni dello spot, venendo trascinati verso l’alto. Questo infine alza il prezzo dell’elettricità, perché il costo di accendere una centrale elettrica a gas (CCGT) è quello che fa il prezzo elettrico per molte ore al giorno.
Risultato: bollette che in Italia, per esempio, sono più che raddoppiate, contribuendo a raffreddare gli animi di governi e opinioni pubbliche su ulteriori sanzioni sull’energia russa.
Per quanto riguarda le esportazioni di petrolio russo, una serie di problemi più tecnici è stata la leva sulla quale governi prudenti o scettici hanno fatto pressione nel corso delle ultime settimane. Una prima crepa nell’unità europea è arrivata quasi subito, allorché Grecia, Malta e Cipro hanno chiesto e ottenuto che dal pacchetto venisse eliminato il divieto alle navi UE di trasportare petrolio russo. Una richiesta fatta per non danneggiare troppo economie per le quali il trasporto marittimo conta molto, ma che ridurrà gli ostacoli a Mosca nel vendere il proprio petrolio a paesi terzi.
Una seconda e più larga crepa si è invece allargata a partire dal ruolo giocato dall'oleodotto Druzhba, che trasporta petrolio russo verso l’Europa centrale. Non avendo uno sbocco sul mare, infatti, molte raffinerie dell’est Europa faticano a trovare petrolio alternativo. Così Repubblica Ceca e Slovacchia hanno chiesto, e già ottenuto, una deroga fino alla fine del 2023. Resta tuttavia in piedi la minaccia di veto dell’Ungheria, che avrebbe prima chiesto un’esenzione di cinque anni dall’embargo e circa 1 miliardo di euro per ammodernare la propria raffineria e rafforzare l’oleodotto che la collega all’Adriatico, e mercoledì avrebbe poi alzato le proprie richieste addirittura a 15-18 miliardi.
Rimane il dubbio che quella ungherese sia una obiezione molto “politica”: da un lato per le simpatie tra Orban e Putin, dall’altra considerando il fatto che l’UE sta continuando a bloccare i 7 miliardi di euro all’Ungheria previsti nel Next Generation EU, a causa dei problemi ungheresi nel rispetto dello stato di diritto.
Gli alti prezzi di elettricità e gas, i problemi tecnici di un’attuazione dell’embargo petrolifero, e in particolare i rischi che qualsiasi nuova azione europea si traduca in nuovi costi per cittadini e imprese stanno frenando l’azione europea. Ma ad alimentare ulteriormente il tutto è proprio il complessivo stato di salute delle economie europee, già messo a rischio dagli alti prezzi energetici e poi ulteriormente complicato da invasione e sanzioni.
Se a febbraio quello di una frenata della crescita europea restava uno scenario fortemente probabile ma ancora da misurare, adesso i dati arrivano, e sono sempre più chiari: nel 2022 la ripresa economica in Eurozona rallenterà molto, da un +4,3% previsto nell’autunno scorso a un +2,7% previsto oggi. Non solo: lunedì la Commissione europea ha stimato che uno “scenario avverso” potrebbe precipitare l’Eurozona verso una vera e propria “crescita zero” quest’anno (+0,2%).
Se a questa forte contrazione nella crescita europea abbiniamo l’aumento dell’inflazione, che ad aprile in Eurozona ha toccato il 7,4%, e un aumento generale della spesa pubblica (per stimoli fiscali, spese militari e umanitarie), non stupisce quindi che molti governi preferiscano tirare il freno a mano rispetto ad azioni più “rischiose” come nuove sanzioni sull’energia.
Sulle sanzioni energetiche non è solo questione di reticenze politiche e problemi tecnici: è anche, meramente, questione di fattibilità. Mentre il sesto pacchetto di sanzioni conterrebbe (o avrebbe contenuto?) sanzioni sul petrolio, non include quelle sul gas. Più che una resa è il riconoscimento che, malgrado gli sforzi, del gas russo l’Europa non potrà fare a meno ancora a lungo.
Nei quasi tre mesi dall’invasione dell’Ucraina, le importazioni di gas russo sono state del 26% inferiori rispetto al primo semestre 2021. Ma questa quantità è praticamente invariata rispetto al calo già registrato prima della guerra, tra ottobre 2021 e febbraio 2022. Inoltre, nel frattempo la domanda di gas in Europa ha continuato ad aumentare per “alimentare” la ripresa economica.
Da un lato, è vero che il peso di Mosca nelle importazioni europee di gas naturale è calato: la Russia è stata superata dalla Norvegia, e le importazioni di GNL da diversi paesi del mondo (in primis Qatar e Stati Uniti) sono ai massimi di sempre e, se sommate, da sole più che compensano gli ammanchi russi (+67 miliardi Gmc/anno, contro un calo di 40 miliardi di Gmc/anno russi). Dall’altro, l’Europa ha fatto il possibile di fronte a una situazione complessa, ma sarà molto difficile trovare ulteriori fonti alternative E se l’obiettivo delle azioni europee rimane quello di ridurre le entrate del Cremlino non è detto che trovare fonti alternative non faccia aumentare ulteriormente i prezzi, correndo il rischio di lasciare invariate o di fare addirittura ulteriormente aumentare i ricavi russi.
Possiamo provare a ribaltare il discorso: cosa succederebbe se oggi Mosca interrompesse le forniture di gas all’Europa? Una premessa: si tratta di un’ipotesi estrema, altamente improbabile, perché costringerebbe Mosca, una volta finito lo spazio negli stoccaggi (stimabile in 3-4 settimane) a sigillare i pozzi o a bruciare il gas estratto, in entrambi i casi causando a sé stessa un ingente danno economico.
Tuttavia, si tratta di un esercizio che ci costringe a riflettere ulteriormente sullo stato di cose in Europa. Il grafico qui sopra mostra lo stato degli stoccaggi di gas in alcuni Paesi europei, circa dieci giorni fa, rispetto al livello di riempimento medio nel periodo 2016-2019. Abbiamo scelto questi quattro Paesi perché Italia e Germania sono i “grandi” più dipendenti dalle importazioni di gas russo, mentre Polonia e Bulgaria sono i due Paesi che sono già andati incontro allo stop totale delle forniture russe ormai da tre settimane.
Come si può notare, intanto, la Polonia era decisamente pronta a una interruzione delle forniture da Mosca: per farlo, aveva i propri stoccaggi su livelli doppi rispetto alla media degli ultimi anni. Viceversa, i livelli di stoccaggio bulgari, già tradizionalmente molto bassi, sono quest’anno addirittura sotto la media, a testimonianza del rischio corso dal Paese. La Bulgaria, infatti, riesce in questo momento a fare a meno del gas russo solo grazie a un aumento previsto delle importazioni dall’Azerbaigian, attraverso la Grecia.
Passando a Italia e Germania, malgrado gli sforzi recenti per cercare di riempire gli stoccaggi, i livelli attuali rimangono sotto la media degli anni precedenti. E, almeno al momento, il gas in stoccaggio nei due Paesi sarebbe sufficiente a sopperire gli ammanchi russi solo per 8-10 settimane. Due mesi e mezzo, prolungabili solo attraverso forti razionamenti dei consumi e, dunque, un sicuro rallentamento dell’economia.
Gli alti prezzi dell’energia e l’incertezza sull’effetto delle sanzioni energetiche continuano a pesare sulla probabilità che il sesto pacchetto di sanzioni UE veda la luce. Purtroppo, le prospettive per il medio periodo non depongono a favore di un imminente miglioramento delle condizioni sui mercati internazionali dell’energia - e questo riguarda in particolare il gas naturale.
Nel grafico qui sopra presentiamo le previsioni sull’evoluzione di domanda e offerta mondiali di gas naturale liquefatto (GNL). La volontà europea di emanciparsi dal gas russo guarda infatti principalmente a questa risorsa, più “flessibile” rispetto ai gasdotti, come alternativa plausibile. Questo, tuttavia, spingerà in questo e nei prossimi anni verso l’alto la domanda mondiale di GNL, già trainata da un mercato asiatico in espansione, senza che al momento i Paesi produttori stiano ancora facendo sforzi sufficienti per aumentarne l’offerta.
Inoltre, se anche gli investimenti in nuova produzione fossero previsti e portati a termine, è probabile che il loro costo contribuirebbe comunque a mantenere alti i prezzi del GNL per un lungo periodo di tempo. All’orizzonte si scorge insomma un forte shortage di GNL, e dunque un periodo in cui i mercati internazionali resteranno “corti”.
Cattive notizie per i governi europei, che non possono dunque contare su prospettive di riduzione dei prezzi per “vendere” le sanzioni alle proprie opinioni pubbliche. E cattive notizie forse anche per il resto del mondo, perché se davvero i prezzi del GNL dovessero restare alti a lungo alcune economie asiatiche potrebbero essere spinte a rinunciare a parte delle forniture, tornando a produrre elettricità con il carbone. Cosa che, purtroppo, sta già avvenendo.
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