Shostakovich-Kentridge, «dialogo» molto attuale - CorrieredelMezzogiorno.it

2022-07-29 18:19:39 By : Mr. jack liang

Un pupazzo di carta appeso ad un filo», così si descriveva Shostakovich . Era il 1948, sei anni dopo la copertina di Time in cui il compositore veniva raffigurato vestito da pompiere e con la didascalia: «in mezzo alle bombe che cadevano su Leningrado sentì gli accordi della vittoria», simbolo propagandistico della resistenza russa contro l’invasione nazista. Retorica che ben conosceva lo stesso Dmitrij, a suo agio nel linguaggio burocratese, con tutti i suoi vuoti cliché. Era stato il suo modo di sopravvivere, di difendersi dall’oppressione stalinista e dalle sue umilianti persecuzioni artistiche. La sinfonia n.10 in mi minore op.93 , scritta nell’estate e nell’autunno del 1953, nei mesi che seguirono la morte di Stalin, sembra sintetizzare tutto ciò che aveva «passato e provato» . Eseguire la decima di Shostakovich è ancora tremendamente attuale, pur rivendicando l’autonomia di un lavoro artisticamente solido, capace di svincolarsi dal periodo storico in cui è stato composto.

In scena William Kentridge Un’idea intelligente «mettere in scena» la decima - eseguita da una delle migliori formazioni del mondo, la Luzerner Sinfonierorchester - facendola dialogare con un’opera per immagini affidata ad un artista come William Kentridge , che aveva già frequentato Shostakovich nel 2010, per un allestimento al Metropolitan di New York , ispirato a Gogol’ e a Il naso (Nos) dei Racconti di Pietroburgo . Sold out in entrambe le serate per il progetto del Teatro di Napoli Pompeii Theatrum Mundi, che ha proposto Oh, to believe in another world , film che l’artista sudafricano di origini askenazita ha cucito addosso alla Sinfonia n.10 del compositore russo. Non immagini originali con colonna sonora di accompagnamento né sfondo per un’esecuzione di lusso sinfonico, ma qualcosa di diverso, autonomo e compagno di viaggio per la musica eseguita dal vivo dalla compagine di Lucerna, diretta da Michael Sanderling. Parallelamente al dipanarsi dei quattro movimenti (moderato, allegro, allegretto, andante-allegro ), Kentridge sceglie di portarci per mano dentro una riscrittura del linguaggio che unisce l’arte del disegno a tecniche di animazione volutamente semplici.

Un flusso ininterrotto che fa muovere i suoi personaggi in una società grottescamente deformata dall’oppressione stalinista: Lenin, Trotsky, Stalin, lo stesso Shostakovich con la sua allieva particolare Elmira Nazirova, Majakovskij e l’amante Lilya Brik. Tutte sagome sotto cui si muovono performer in carne ed ossa, che animano un collage costruttivista fatto di pagine di giornali, figure immaginarie e personaggi realmente esistiti, che abitano un set volutamente dismesso , che di volta in volta diventa museo, teatro, piscina. Con chiodi che ballano mentre gli dei fuggono, roulette di esseri umani, filmati in bianco e nero (emozionante vedere lo spezzone in cui compare lo stesso Shostakovich al piano), con i versi di Vladimir Majakovskij (Oh, to believe in another world , si deve a lui) a ricordarci, come una preghiera laica, quanto la vita e il talento del compositore siano stati profondamente segnati dalla rivoluzione e dalle sue derive.

La propaganda affonda le sue radici nei movimenti che fluiscono: il lavoro è la nostra nazione, andiamo verso la felicità con pugno di ferro. Chi sono diventato? Il passato è troppo stretto? Ridotto a marionetta, che dirige sul podio con una bandierina rossa, il compositore è vinto, come il suo poeta Majakovskij, morto suicida mentre la rivoluzione cancella con un colpo di inchiostro i suoi volti simbolo. La Luzerner Sinfonieorchester, ottanta musicisti in forma smagliante, sembra non risentire del set all’aperto (che con l’umidità risultava ancora più insidioso), con una esecuzione sempre cristallina e attenta ai dettagli, affidata alla sapiente guida di Sanderling. Prime parti di pregio (dalla spalla d’orchestra alle sezioni di fiati e legni), con assoli di virtuosismo elegante, per un affresco sinfonico, quello della decima, pietra miliare del repertorio novecentesco.

Applausi generosi per l’orchestra, Sanderling e Kentridge, presente ad entrambe le serate. Con riconoscimenti anche per ogni prima parte e sezione d’orchestra. A dimostrazione che, in tempi di festival estivi mainstream, un progetto speciale può essere intelligente, visionario e contemporaneamente apprezzato . Aggiungiamo che, soprattutto se finanziato con fondi pubblici, deve osare una sua visione originale, che superi l’idea della bella location, per coinvolgere gli artisti oltrepassando la mistica del singolo evento. Con Oh, to believe in another world è successo proprio questo. In due serate afosissime di fine giugno, chi era a Pompei ha capito cosa significhi condividere un’opera complessa e articolata che, tangenzialmente, può anche essere riflessione sul nostro tempo, osservato con gli occhi dell’arte.

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